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martedì 22 marzo 2011
LA NO FLY ZONE E LA MORTE DELLA POLITICA
Senza andare ai tempi dell'Impero romano basterebbe la dichiarazione Balfour del 1917 per chiarire che un conto sono le carte scritte e un conto la loro interpretazione. Così che la risoluzione dell'Onu 1973 viene tirata in queste ore a destra e a sinistra (e non solo in senso figurato) come una coperta troppo stretta che cerca di coprire appunto le più diverse interpretazioni. Prendete ad esempio la lettura che ne fa il ministro degli Esteri britannico William Hague, secondo cui la 1973 autorizza la possibilità di attacchi contro Muhammar Gheddafi ( “...le cose consentite dipendono dai comportamenti, dalle circostanze...”) o la lettura più prudente dell'ammiraglio americano Mike Mullen secondo cui l'obiettivo della risoluzione non è la caduta del colonnello. O quanto vi ha letto la Lega araba, correttamente, ossia che un conto è proteggere i civili, un'altra bombardarli, posizione ripresa ieri dalla Tavola della pace (“...una cosa è la Risoluzione dell’Onu, un’altra è la sua applicazione. Una cosa è difendere i diritti umani, altra è scatenare una guerra....la Carta dell’Onu autorizza missioni militari, non qualsiasi missione militare...). Insomma lo spettro della guerra si aggira sui cieli libici e sulle cancellerie di mezzo mondo. E, giustamente, fa paura.
Quel che tutti si chiedono, forse un po' tardivamente, è cosa sta facendo la diplomazia. Abbiamo saputo che gli spagnoli hanno ascoltato dall'opposizione libica la richiesta di armi, che gli 007 si muovono ma non c'è molto altro. Ban Ki-moon agita la necessità (sacrosanta) di un cessate il fuoco ma, da varie capitali (come ahinoi quella italiana), già si spalleggia una presa in carico della consegna da parte della Nato, organizzazione regionale assai poco comunitaria e che non ha fornito ottime performance negli ultimi anni. La politica, assente, resta ostaggio ormai da troppi anni della soluzione militare ancorché il ricorso alle armi per fermare la guerra, negli ultimi anni, abbia semplicemente portato al suo prolungamento.
Il dramma di questo ennesimo conflitto è che la politica rischia di uscirne ancora sconfitta e che il buon risultato di una risoluzione condivisa (pur se con cinque astensioni) venga vanificato dalle troppe letture di un testo che a Parigi e Londra si legge in un modo e al Cairo o a Giacarta in un altro. Se l'obiettivo è la protezione dei civili, le operazioni di sorvolo dovrebbero essere mirate a non far alzare i caccia libici. Se invece (ma dov'è scritto?) l'obiettivo è cacciare Gheddafi o fulminarlo nel suo bunker allora è giusto bombardare Tripoli costi quel che costi. Su questa interpretazione che contiene una bella differenza e che centra in pieno la fragile frontiera tra l'ingerenza umanitaria e l'esportazione della democrazia sulla punta dei carri armati si gioca la credibilità delle istituzioni sovranazionali che ci siamo dati e forse ci offrono anche l'occasione di ripensarne ruolo e autorità. Ma sotto il fragore delle bombe che rischiano di mischiarsi alle urla delle vittime civili discutere diventa di ora in ora sempre più difficile.
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