Un ambientalista è per forza un pacifista? Non sempre e non per forza, come il dibattito sull'intervento in Libia ha dimostrato e come dimostra l'interrogativo che, dall'ingerenza umanitaria in avanti, caratterizza un modo di interrogarsi che va oltre schemi e ideologie. Pur se, per forza di cose, non si può eludere il rapporto che la guerra ha, oltre la distruzione degli esseri umani, con le offese e le ferite che porta al territorio, agli animali che lo popolano, alle specie vegetali che lo ricoprono. Basterebbero le immagini del napalm, in un certo senso, a marcare una linea netta tra chi ama la Terra e chi pensa che sia solo un luogo su cui fare esercizi muscolari.
Ma se un ambientalista è abbastanza pragmatico e abbastanza deideologizzato da porsi comunque una serie di domande (come posso difendere un mio simile) c'è qualcosa su cui forse è legittimo interrogarsi a priori. Non è vero infatti che sulla guerra finiamo sempre per esprimerci (e condannarla) una volta che è scoppiata? Se a Pasqua, come a Natale, si fanno buoni propositi, non sarà il caso, questa volta, di chiederci cosa si può fare prima che la guerra, ultima e pessima ratio, diventi lo strumento principale per tentare (spesso fallacemente) di risolvere un problema?
Il dibattito sul conflitto in Libia ha messo in luce due elementi: il primo è che, per la prima volta, la comunità internazionale ha messo nero su bianco in una risoluzione largamente condivisa il concetto di protezione dei civili. Giusto, sacrosanto, indubitabile passo avanti. Ma il secondo elemento è che, per proteggere, abbiamo utilizzato strumenti che si stanno rivelando, come già in passato, pericolosi e per nulla risolutivi. Le bombe non scacciano le bombe: le chiamano. E un 'organizzazione regionale (la Nato) non può assumersi l'incarico a nome degli oltre 180 Paesi che compongono il mondo. Abbiamo bisogno di strumenti nuovi. E sarebbe ora che ci pensassimo prima. Perché, dopo la Libia, potrebbe esserci lo Yemen, il Bahrein o, nuovamente, il Sudan....(CONTINUA SU LETTERA22)
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