Trentremila soldati a casa in 12 mesi e subito 3mila uomini con le valigie in mano. E' l'atteso annuncio dato ieri dal presidente Obama sul ritiro delle truppe dall'Afghanistan che sta per iniziarea luglio e la cui prima fase si completerà nel 2012 dopo che entro il 2011 i primi diecimila avranno fatto rientro negli Usa.
Il dibattito sul ritiro infiamma il Congresso e la stampa americana da mesi con una speculazione infinita su quanti soldati, quali e in che tempi si ritireranno dall'Afghanistan: entro il 2012? Entro il 2014? Entro mai....? Quanti ne resteranno insomma e per quanto tempo nella palude dell'Hindukush? L'ultima domanda è quella vera e le risposte sono contenute in due file: uno si chiama bilancio, l'altro negoziato.
Nel primo file ci sono i soldi spesi dall'America per la guerra al terrore dal 2001 e per i quali ormai l'Afghanistan fa la parte del leone: Secondo il servizio di ricerca del Congresso, considerato autorevole e attendibile anche perché tenuto a essere rigidamente al di sopra delle parti, a marzo 2011 il parlamento americano aveva approvato 1,283 trilioni di dollari, il 63% dei quali (806miliardi) per l'Irak e il 35% (444 miliardi) per l'Afghanistan, cui vanno aggiunti altri 29 miliardi per la sicurezza delle basi. Per l'esattezza la borsa statunitense ha elargito per il 94% al Pentagono, per il 5% ad aiuti umanitari e operazioni diplomatiche e per l'1% in spesa sanitaria in favore dei veterani. Aggiungete il Pakistan (AfPak) e il conto continua a salire.
La spesa per il solo Afghanistan è cresciuta mensilmente fino a sforare quota 6,7 miliardi (217 milioni di dollari al giorno contro i circa due che spendiamo noi per 4mila soldati), superando quella irachena che ormai decresce ma con un tetto previsto per il 2012 dal Pentagono che dovrebbe mettere a bilancio un po' meno di 300 milioni al giorno. Spese cui andrebbe aggiunto il portafoglio di quelle elargite per operazioni “coperte” con un esborso complessivo ormai divenuto insostenibile e che ha fatto pensare a Obama che sia venuto il momento, concluso il capitolo Al Qaeda (con la morte di bin Laden), di mettere mano al buco nero creato da 100mila soldati “in teatro” (98mila per essere precisi).
Il secondo file è quello del negoziato che è chiaramente dipendente dal primo. Equazione semplice: la guerra costa troppo e del resto la “mission” (sconfiggere i qaedisti) si può dire conclusa. Ergo: tutti a casa. Ergo bisogna fare qualche passo indietro dai famosi paletti rossi (non si tratta coi terroristi) e fare quello che molti analisti consigliano almeno dal 2007: negoziare coi talebani. Non è una caso che la verità che a Kabul tutti conoscono (già si tratta) sia ormai uscita allo scoperto il 17 giugno quando Karzai ha rivelato che il re era nudo. E cioè che gli americani, bypassando bellamente il suo governo, stavano già trattando (con l'aiuto di altri Paesi come la Germania e qualche emirato del Golfo) direttamente con la guerriglia in turbante. Due giorni dopo, il 19, lo ha ammesso anche Robert Gates, il titolare della Difesa americana.
Della trattativa si sa molto poco: il nome uscito dal cappello è quello di Tayeb Agha, già segretario del mullah Omar, capo supremo della cupola talebana, o almeno della fetta più consistente della galassia guerrigliera. Tayeb Agha il negoziatore, un buon inglese, un'affidabile carisma, la barba d'ordinanza e solo 35 anni di età, avrebbe incontrato gli americani almeno due volte – riferisce Le Monde – in Qatar e in Germania, Paese che sta lavorando alla conferenza “Bonn II” che, a dieci anni dalla storica Conferenza di Bonn del 2001, vorrebbe poter indicare che la strada maestra della conciliazione è iniziata. E, se tutto va bene, Berlino vorrebbe portare a Bonn II i grandi assenti di Bonn I: i talebani. I britannici invece starebbero trattando con la rete Haqqani, una pattuglia di radicali sanguinari guidata da una storica famiglia assai potente nelle antiche formazione mujaheddin che combatterono i sovietici. Con Hekmatyar, il terzo capo fazione, la trattativa è già a uno stadio più avanzato da mesi, tanto che i suoi emissari sono stati ricevuti a Kabul persino dai responsabili dell'Onu.
In tutto ciò, tra mezze verità, aspirazioni, fretta di fare le valige e conti correnti, tutti si chiedono se il vero grande giocatore, il Pakistan, stia o meno dettando l'agenda di questi preliminari negoziali. La cosa è fuor di dubbio anche se forse il peso di Islamabad è un po' troppo sopravvalutato. Ma che il Pakistan voglia (riuscirci è un altro discorso) mettere i piedi nel piatto è fin troppo evidente. E del resto le relazioni con gli americani, nonostante le schermaglie pubbliche, sono così forti che è impossibile non pensare che nella trattativa non ci sia anche un accordo Washington Islamabad. Gli unici a esser tagliati fuori sembrano gli afgani: il governo Karzai, la società civile che teme di perdere diritti e prerogative che dieci anni di occupazione hanno quantomeno elargito alla neonata classe media urbana, e quei milioni di contadini poveri per i quali la guerra non è che un fardello molto pesante da portare e che ormai ha ampiamente superato i trent'anni di età.
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