Afghanistan mon amour: la frontiera con l'Eden. L'inizio del viaggio a Herat. Alberghi a Sharenaw. Viaggio a Kandahar. La Bamyan dei Buddha. L'infelicità della guerra: mujaheddin, russi, talebani, americani, italiani, questa volta in divisa
La notte, a quelle latitudini, arriva velocemente. Avevamo appena lasciato il posto di frontiera iraniano di Taiebad ed eravamo entrati in Afghanistan, che le luci del giorno si andavano affievolendo. Il passaggio del confine non era stato indolore ma sapevamo che la vera frontiera del “Viaggio all'Eden”, la mitica strada che portava dall'Europa sino all'India e a Kathmandu negli anni Settanta, si trovava lì dove il grande altipiano del Khorasan persiano si perde nei deserti dell'Afghanistan, un luogo, un nome che con l'andar del viaggio - nelle storie raccolte a Istanbul o Teheran - stava diventando qualcosa in più di una semplice tappa. Alla frontiera iraniana la polizia dello Scià imponeva, a chi andava o veniva, un passaggio obbligato in un corridoio degli orrori: batterie scoperchiate, scatole di conserva squarciate, gomme rivoltate come calzini, cruscotti smontati, tubetti di dentifricio svuotati. L'avvertimento era chiaro così come il biglietto da visita dell'Afghanistan, patria tra l'altro dell' “afgano nero”, l'hascisc più ricercato del pianeta. Lasciavi la Persia del Trono del pavone con le sue lugubri promesse penitenziarie e agenti azzimati dalle divise luccicanti e arrivavi al posto di frontiera de la “République d'Afghanistan”, che allora il francese era la lingua di una monarchia che, appena un anno prima, nel 1973, era diventata repubblica mentre il re Zaher Shah era in vacanza a Capri...
segue in un libro di prossima pubblicazione
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