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venerdì 4 aprile 2014

Rana Plaza. Anche il senato striglia il Made In Italy

Il senato italiano chiederà conto alle aziende italiane coinvolte, seppur indirettamente, nel crollo del  Rana Plaza, l'edifico a otto piani – due dei quali costruiti abusivamente – crollato a Dacca il 24 aprile scorso uccidendo oltre 1100 persone. Il senatore Luigi Manconi conferma l'intenzione, chiarendo ovviamente che non si tratta di un'imposizione:  chiunque vi si può sottrarre «assumendosene però la responsabilità», chiarisce il presidente della Commissione diritti umani della Camera alta. «Contattati dalla Campagna Abiti puliti e messi a conoscenza dell'esistenza della creazione di un Fondo per i risarcimenti alle vittime, scriveremo alle aziende italiane coinvolte e, in base alle loro risposte, valuteremo la loro convocazione in senato». Il Fondo è stato istituito da un accordo (Arrangement) siglato sotto l'egida dell'Ilo, l'Ufficio del lavoro Onu di Ginevra, e prevede un trust fund di 40 milioni di dollari che dovrà garantire un anticipo immediato di 450 euro alle famiglie delle vittime e poi un computo che prevede un saldo finale per il mancato reddito e le spese mediche. Ma le aziende italiane che lavoravano con le fabbriche bangladesi del Rana Plaza finora non hanno firmato: Benetton, Manifattura Corona e  Yes Zee .


«Sia chiaro – spiega Manconi – che la Commissione non ha il mandato di entrare nel merito del sistema complesso dell'economia del tessile ma ha sì il dovere, venuta a conoscenza di un fatto che riguarda aziende italiane, di agire.  Siamo molto pragmatici e non sta a noi risolvere o sindacare il quadro generale, cosa che spetta all'Ilo e ai sindacati dei lavoratori. Ma possiamo, dobbiamo chieder spiegazioni e agevolare, pur con tutti i nostri limiti, un'assunzione di responsabilità. Qui non si tratta di una vicenda “esotica” perché si è svolta in Bangladesh. C'è una falla che riguarda anche l'Italia». Manconi ha del resto firmato un appello con la vicepresidente del senato  Valeria Fedeli che invita le aziende italiane a contribuire al Fondo, appello che accompagna una delegazione di lavoratori del Bangladesh che ieri ha fatto tappa a Treviso, la città del Gruppo Benetton.

Benetton è di fatto il marchio più esposto, anche per la potenza di una sigla nota in tutto il mondo. Il gruppo di Treviso, che inizialmente aveva negato il suo coinvolgimento, si è poi dato da fare firmando il Bangladesh Fire & Building Safety Accord, un accordo sotto egida Ilo che prevede un programma  di ispezioni mirate alla  sicurezza delle fabbriche tessili del Paese. Ma sul Fondo invece ha fatto marcia indietro. Sulla “Tribuna di Treviso” di ieri il gruppo lo spiegava così: «Sul fondo per le vittime del Rana Plaza vogliamo ribadire che siamo stati fautori del tavolo per la sua creazione e inizialmente siamo stati anche una delle quattro aziende che lo coordinavano; poi ci siamo resi conto che i tempi si dilatavano e si stava arrivando a prevedere un contributo solo su base volontaria e non proporzionato all’effettiva presenza di ogni azienda.  Abbiamo quindi deciso di concentrare  i nostri fondi e sforzi per il sostegno alle vittime e alle loro famiglie sul programma messo a punto con Brac, una delle più importanti Ong del mondo», in effetti un colosso umanitario del Bangladesh (con una sede negli Usa), che sostiene di impiegare  100mila persone, di essere finanziata soprattutto da imprese commerciali private e che sostiene di assistere oltre 120 milioni di beneficiari. Ma le voci critiche sostengono che questo è anche il modo per sottrarsi alla responsabilità di pagare. Una stima che, per Benetton, si aggirerebbe sui 5 milioni di dollari.


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