Arrivati
nella capitale, in effetti, ad essere freddo non è solo il tempo
atmosferico. La primavera quest'anno si fa aspettare e marzo ha
riservato ancora qualche nevicata con fangosi pantani ai margini di
strade sommariamente asfaltate e incorniciate da canaletti di scolo
appena rifatti ma già ingolfati di plastica, stracci e lerciume.
Segno di quanto poco l'ambiente sia nelle preoccupazioni degli
esportatori di democrazia. Anche all'economia non è stato dedicato
molto pensiero dai Soloni di Washington o di Bruxelles. Ed ecco la
sconfitta di un liberismo sfrenato e autoregolatore, capace solo in
teoria di far saltare a un'economia semifeudale tutte le tappe delle
rivoluzioni economiche del Vecchio e del Nuovo mondo. La
speculazione, attratta da affari facili e scarsa capacità di
controllo sulla proprietà, ha fatto il resto, accaparrandosi
terreni, miniere e naturalmente succulenti appalti dalla Nato. Ma
pochi si son preoccupati di tutelare il lavoro, per lo più
informale, che agita le preoccupazioni del futuro. I sindacati, che
pure esistono, non sono mai invitati alle kermesse blindate di
generali e diplomatici – l'élite che si divide con l'esecutivo la
governance del Paese – e pochi han dato retta alle proiezioni
dell'Ilo, l'Ufficio Onu del lavoro, che ricorda come ogni anno
400mila nuovi afgani si affaccino sul mercato in cerca di
occupazione. Molta della quale adesso, con la fine – più che della
guerra – della presenza occidentale, sta per svanire come l'ultima
neve al sole primaverile.
L'attivismo
della capitale, che fino a sei mesi fa, ballava ubriaca il suo ultimo
valzer di splendore sulle macerie di una guerra trentennale, adesso
fa da tappezzeria, aspettando di capire chi sarà il principe azzurro
che urne e giochi di potere riservano dopo il 5 aprile, giorno delle
presidenziali. Cantieri fermi, ponteggi vuoti, camion in rimessa.
Sei mesi fa Kabul sembrava un nuova Dubai un po' stracciona in
costruzione. Adesso, anche gli sceriffi del Golfo devono aver chiuso
la cassa aspettando di capire. Il prezzo dei terreni è calato del
50%. Gli affitti sono crollati. All'incertezza sul futuro politico si
somma quella sugli accordi di partenariato tra Washington, Bruxelles
e Kabul: non accordi commerciali o culturali ma militari, che devono
disegnare il futuro della presenza americana ed europea e la
consistenza di una legione in divisa che era arrivata a contare
130mila uomini e almeno 200mila contractor. Non sapere quanti soldati
rimarranno, in quante basi, per quanto tempo, significa anche non
sapere quanto ancora durerà la manna legata alla guerra, tragedia
nefasta che a pochi garantisce lauti profitti.
Anche
la moneta ne risente e mentre l'afghani saliva del 5%, i suoi
concorrenti valutari, in Iran, Pakistan, Tajikistan, perdevano quasi
il 50% del loro valore. A Karzai e alleati importava poco la
concorrenza commerciale dei vicini, ma adesso non ci si può più
permettere che sia più conveniente comprare i cavolfiori a Peshawar
, oltre confine, anziché dagli orti attorno alla capitale. L'attesa
per le elezioni assottiglia la distanze tra le monete ma il senso di
un'incognita con poche risposte si fa pressante. Se è vero che il
90% dei quasi 20 miliardi di dollari di Pil afgano si devono al
portafoglio internazionale (e gran parte del sommerso a traffici
illeciti) l'apprensione è comprensibile. A maggior ragione ora che
il flusso di capitali esteri ha smesso di correre verso investimenti
facili e che l'enorme massa di valuta pregiata circolata in
Afghanistan per dieci anni si ridurrà drasticamente.
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