I due khmer rossi accusati di cirmini contro l'umanità: a sinistra Nuon Chea, l'ideologo, a destra l'ex presidente Khieu Samphan |
Il
“fratello numero 1” - di nome Pol Pot – è morto diversi anni
fa. Il “fratello numero 3” - a nome Ieng Sary – è deceduto in
prigione a 87 anni. Kain Guek Eav, il compagno Duch, il macellaio
della prigione di Tuol Sleng è già in carcere dove sconta
l'ergastolo. Mancavano solo il “fratello numero 2” - al secolo
Nuon Chea, braccio destro di Pol Pot - e Khieu Samphan, il volto
ufficiale del regime, presidente della Kampuchea democratica, il
regime dei khmer rossi che prese il potere in Cambogia nel 1975 e la
governò col terrore per quattro anni, fino all'invasione dei
vietnamiti che ne decretarono la fine sostituendolo con un governo
fantoccio, amico di Hanoi e Mosca e che, in un certo senso, ancora
dura. Ieri la Corte speciale cambogiana, meglio nota come Tribunale
per i khmer rossi, ha comminato l'ergastolo agli ultimi due uomini
del regime in attesa di verdetto, accusati di crimini contro
l'umanità e, nelle parole del giudice Nil Nonn, colpevoli di
«sterminio, persecuzioni politiche e altri atti inumani come il
trasferimento forzato, la scomparsa di persone e attentati contro la
dignità umana».
Verdetto
inevitabile quanto atteso e che chiude un lungo capitolo. Di pena
(per le vittime del regime) e di polemiche su un tribunale nato con
fatica, con l'appoggio delle Nazioni Unite e la reticenza degli Stati
– asiatici e occidentali – che temevano in qualche modo di essere
chiamati a render conto dell'appoggio, diretto o indiretto, di cui
Pol Pot e i suoi godettero soprattutto dopo la fine del regime, nei
santuari al confine con la Thailandia. Degli altri si è detto: Pol
Pot è morto prima del processo, Duch è in prigione dove sconta
l'ergastolo (nel 2012 la sua pena, clamorosamente ridotta a pochi
anni di galera, è stata poi rivista e rafforzata), Ieng Sary è
morto prima del verdetto: resterebbe sua moglie Thirith, considerata
però ingiudicabile perché malata di mente. Sua sorella era stata la
prima moglie del “fratello numero 1”.
Anche i khmer rossi fecero la loro"lunga marcia" |
A
Phnom Penh la cronaca registra evidente soddisfazione anche se il
giudizio è tardivo e pieno di lacune e tutti gli accusati sono ormai
dei vecchi ottuagenari cui resta poco da vivere. Tant'è, giustizia
sembra fatta anche se quarant'anni dopo. Adesso sarà la Storia a
scrivere l'ultima parola. I buchi in effetti sono tanti a cominciare
dai numeri della strage di massa che il regime concepì sia sul piano
della defenestrazione psichica e fisica di chi si opponeva o di chi
semplicemente resisteva al progetto dell'“uomo nuovo” ideato da
Pol Pot, sia sul piano del maltrattamento cui la popolazione
contadina – enormemente cresciuta per l'esodo forzato dai centri
urbani – era sottoposta. La gente, se non moriva negli
interrogatori di Tuol Sleng (di cui ha lasciato una vivida
ricostruzione il regista scrittore Rithy
Panh, pubblicato in Italia da ObarraO), crepava
di fame nelle campagne, uccisa dal lavoro forzato e dalle ricorrenti
carestie. C'è ancora da scrivere con esattezza la pagina di quello
sterminio le cui cifre sono ballerine: un milione, un milione e
mezzo, due milioni di morti. I critici dissero che in quella
sommatoria della morte c'erano anche le vittime dei bombardieri
americani che con la loro “guerra segreta” avevano cercato di
colpire la Cambogia del principe rosso Sihanuk, che concedeva ai
vietcong di transitare sul suo regno durante la guerra del Vietnam.
Poi ci sono le responsabilità di chi non vide, non volle vedere, non
indagò: una colpa che si estende a destra e a sinistra, nei giornali
e fra gli intellettuali con poche eccezioni (Tiziano Terzani). E
infine, se non prima di tutto, le responsabilità politiche verso un
Paese che subì le stesse sorti dell'Afghanistan: la geopolitica
dettò alleanze e convenienze e, quando i khmer rossi dovettero
scappare in montagna i cinesi dettero loro una mano e altrettanto
fecero i servizi segreti occidentali, perché il nuovo regime di Hun
Sen, un ex khmer rosso con armi e sostegno
di Hanoi, era appoggiato
da Mosca e il Vietnam, dopo la vittoria contro l'America, era
diventato troppo aggressivo e pericoloso.
Agli
storici dunque colmare i vuoti che il tribunale non ha potuto o
voluto riempire. Hun Sen non lo avrebbe permesso. Gli agenti cinesi,
americani o britannici si sarebbero rifiutati di deporre. I
tailandesi non sarebbero certo venuti a spiegare come mai il traffico
di legname e pietre preziose, che i khmer rossi raccoglievano nei
territori a ridosso della frontiera, filava liscio e senza intoppi
sino a Bangkok. Le vittime però – chi è ancora vivo – tirano un
sospiro di sollievo. Tardi e con molti buchi neri ma almeno una
parola è detta. Ora si può ricominciare in un Paese dove c'è
sempre altro a cui dover pensare; a come sfangarla nel regno di
Cambogia (sul trono c'è un figlio di Sihanuk) dove a regnare davvero
è, ironia della sorte, un ex khmer rosso dal pugno di ferro.
2 commenti:
In febbraio ho avuto modo di visitare il museo di Tuol Sleng e di essere sfiorato dai fantasmi di morte e orrore che contiene. Ho avuto l'impressione che i cambogiani ci tengano molto a far conoscere il loro passato, inserendo le loro personali testimonianze nei percorsi turistici degli stranieri, e credo che questa sentenza fosse molto attesa. Spero che lo sviluppo della nazione cambogiana trovi un percorso di indipendenza e di salvaguardia della loro cultura dal manifesto assalto della globalizzazione e dello sfruttamento occidentale.
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