Erano stipati
come polli di batteria in una vecchia concessionaria di auto di
Gorizia gli oltre un cento di migranti afgani e pachistani che sono
stati trasferiti con un blitz ieri mattina alla volta di Milano, dove
la prefettura avrebbe trovato un rimedio forse più consono per gente
in fuga dalla guerra.
Se
qualcosa si è mosso in queste ore nella rimessa che abbiamo
visitato alla viglia del blitz (gli afgani erano lì dal 23 ottobre
dopo mesi di un'emergenza che li ha visti accampati prima in una
tendopoli e ancor prima lungo l'Isonzo) il merito è forse della
Caritas locale e del prefetto di Gorizia. Quest'ultimo infatti ha
pensato bene di uscirsene con una di quelle frasi che hanno ormai una
lunga tradizione nel nostro Paese: «Questi
non son profughi – ha detto Vittorio Zappalorto rappresentante di
Alfano nella città friulana –
sono semplicemente furbi. E la commissione territoriale per
richiedenti protezione internazionale dovrebbe capire una volta per
tutte il gioco che stanno facendo. Eviterebbe anche di far spendere
un sacco di soldi».
La
reazione è commisurata alla leggerezza del rappresentante dello
Stato. La responsabile del Centro
italiani rifugiati,
che sulla rimessa dormitorio ha inviato un dossier a Roma, si fa
sentire. L'Alto commissarito dell'Onu prepara una missione, le
associazioni si muovono con Tenda
per la pace e i diritti
che chiama i giornalisti e avvisa Human
Rights Watch.
Ma la Caritas,
anche per il peso che ha nella regione, riesce a bucare il silenzio
che circonda la scomoda presenza dei “furbi” che, a detta del
prefetto, sarebbero stranieri che provengono da altri Paesi Ue
«...dotati
di carte di credito che la maggior parte della gente si sogna.... si
spostano in aereo, atterrano a Venezia e poi vengono a Gorizia a
mettersi in fila per il rilascio dell’asilo politico».
Don Paolo Zuttion, direttore della Caritas
diocesana, risponde al prefetto dalle colonne de “Il Piccolo”:
«Un furbetto non viene a bere acqua nell’Isonzo»: un'ironia che
nasconde la preoccupazione che frasi del genere possano «vanificare
il lavoro della Caritas e dei tanti volontari che stanno mettendo a
disposizione il loro tempo libero per aiutare i migranti e dar loro
un riparo». In effetti a occuparsi dei furbetti con carta di credito
che vivono nell'autorimessa ci sono tre giovani universitari che si
sono improvvisati volontari. Non li vediamo quando raggiungiamo l'ex
garage ma in compenso arriva un signore in automobile che scarica
vestiti puliti. E' la reazione civile alle analisi di Zappalorto.
Il
capannone è nella zona commerciale periferica della città: uno
stanzone forse
di 200 metri quadri dove stanno stipati in oltre
cento, forse centoventi. Non c'è una finestra e per far uscire il
forte odore si tengono le porte spalancate. Per fortuna, visto che
all'interno non c'è nemmeno un estintore (dalle placche alle pareti
si capisce che ce n'erano almeno cinque quando da salvaguardare
erano le automobili). Fuori ce ne sono due ma nessuno ha spiegato
come utilizzarli. Nell'ex autorimessa, che il proprietario affitta
adesso alla prefettura per alloggiare i migranti, di bagni ce n'è
uno solo accanto a una catasta di materassi e lenzuola sporche perché
evidentemente la pensione non prevede il cambio. Fuori sette cessi
ecologici ma due son rotti. Sulla fila di brandine attaccate l'una
all'altra, le facce smagrite di pashtun dell'Est afgano, di gente
delle aree tribali pachistane, di un paio di curdi. Hanno una sola
coperta sotto alcuni generatori di calore che scaldano poco ma, per
fortuna, il tempo è clemente. Nessuno di loro emette una sola nota
di protesta: «Vengo
da un Paese povero ma da noi non si vive in queste condizioni –
azzarda uno di loro che subito si corregge – però certo qui è
meglio che nel bosco».
Un altro si affretta a chiarire: «Scriva
che i soldi spesi per noi non ci arrivano direttamente in tasca. La
gente di Gorizia pensa che abbiamo casa e denaro dal governo ma non è
così. Non siamo venuti per approfittarci degli italiani».
Un'eco alle parole del prefetto.
Parlano
volentieri, ci offrono il tè, non si offendono se la macchina
fotografica indaga, con la nostra penna, le loro sofferenze. Uno di
loro è un ex militare nella zona di Torkham, al passo di Khyber: «I
talebani volevano che io riferissi ogni giorno su quel che avveniva
alla frontiera. Se ti rifiuti, mi hanno detto, è meglio che te ne
vai o ci lasci la vita. Ecco perché son qui». Un altro ammette,
viene da Londra dove viveva da clandestino: «Perché me ne sono
andato dall'Afghanistan? Se sei stato in quel Paese sai perché.
Vogliamo vivere in pace non ne possiamo più di questa guerra che non
finisce mai». Un altro aggiunge: «Spiegalo ai tuoi lettori: in
Afghanistan e in Pakistan c'è la guerra. Non è finita, siete solo
voi che ve ne state andando». La guerra rimane.
Le foto sono di Monika Bulaj
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