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mercoledì 13 maggio 2015

Perché difendo Seymour Hersh

Contro il povero Seymour Hersh, colpevole di aver smascherato quantomeno i buchi nel racconto della Casa Bianca sulla morte di Osama bin Laden, si è scatenata una vera e propria bufera, in parte riassunta in questo articolo di Internazionale. Naturalmente ci si aspetterebbe che quanti condannano lo scoop del vecchio Seymour adducano prove a sostegno di quanto afferma l'Amministrazione che, al contrario della fonte di Hersh, è una voce ufficiale e - aggiungo - proprio in quanto tale deve essere presa con le molle. Si è detto che Hersh cita solo fonti anonime e in quanto tali i pilastri della sua tesi sono dubbi. Ma, come ho già scritto, i giornali sono pieni di fonti anonime: compresi quelli anglosassoni che noi portiamo sempre in palma di mano come modello. Provate a digitare su google la frase  "according to a State Department source" (tra virgolette) e troverete circa 84mila occorrenze. Poi il giornalista bravo ci aggiunge anche un "familiar with the numbers" o "with a close relation with the White House" e voi ve la bevete tranquilli. Se vi viene qualche dubbio - immagino - controllate il nome dell'autore. Ed è l'autorevolezza del cronista a garantirvi che la fonte l'ha sentita.

 Ma ammettiamo pure che la fonte anonima di per se dica tutto e niente. Seymoyur allora cosa fa: ne sente diverse e, tra queste, anche agenti pachistani, militari pensionati, ex 007 di cui fa nomi e cognomi. La Casa Bianca risponde piccata ma non mette prove sul tavolo. Non mi pare che la smentita sia stata accompagnata da tutto quel che avremmo voluto vedere di bin Laden: il corpo ad esempio o anche solo una parte. Un fotogramma che non fosse quello di un vecchio di spalle che guarda la Tv. Un documento eclatante e non fabbricato sulle vicende qaediste travato nel rifugio. Top secret va bene, ma tutte quelle spiacevoli mancanze di prove all'epoca mi diedero molto fastidio. Penso che lo stesso sia successo a Hersh.

Il vecchio divenne famoso per la strage di My Lai in Vietnam. Ma che fatica: è una storia che merita di essere raccontata.  All'epoca in cui Hersh scrisse la sua storia non sapevamo ancora che la guerra in Vietnam era stata costruita su una bugia che allora si chiamava  “incidente” del Tonchino e che incidente non fu per niente (solo questo elemento dovrebbe far sempre diffidare delle versioni ufficiali). Agli americani fu raccontato che era necessario pertanto difendere la democrazia rappresentata dal governo di Saigon ma in realtà si voleva  evitare quello che alcuni strateghi statunitensi chiamavano “effetto domino” e cioè che la caduta del Sud avrebbe automaticamente favorito l'avanzata di cinesi e sovietici nella loro guerra al “mondo libero”. Ma questa è un'altra storia e comunque sino alla strage di My Lai la convinzione generale era questa. Cosa successe a My Lai?*

Nel marzo del 1968 la Compagnia C della 11ma brigata di fanteria leggera aveva massacrato sistematicamente un numero di civili tuttora incerto (tra 300 e 500 tra donne, vecchi e bambini) nel piccolo villaggio di My Lay  nella provincia di Quang Ngai nel Vietnam del Sud. E' l'allora giovane  giornalista Seymour Hersh a raccontare diffusamente quella storia  e a rompere la cortina di silenzio che copriva il massacro. Ma all'inizio, «Life» e «Look», cui Hersh aveva proposto i risultati della sua inchiesta, rifiutarono di pubblicarla. Nel novembre del '69 riuscì finalmente a scrivere per l'«Associated Press» un articolo che sollevava dubbi sul numero dei morti e rivelava l'accusa mossa dal tribunale militare al sottotenente William Calley  di aver ucciso 109 vietnamiti (Calley, l'unico soldato poi condannato per quella strage, ebbe inizialmente l'ergastolo per l'uccisione di 22 persone ma scontò poi  solo tre anni e mezzo ai domiciliari). La vicenda dilagò così su diverse testate da «Time» a «Life» a «Newsweek» (una trentina in totale e Hersh vince il Pulitzer). «The Plain Dealer», il più importante quotidiano di Cleveland, pubblicò fotografie esplicite del massacro. Reportage da quella zona chiarirono poi che My Lay non era per niente un singolo caso, ma un sistema applicato ripetutamente con bombardamenti aerei e artiglieria che avevano raso al suolo il 70% dei villaggi della zona. Il coraggio, la caparbietà e la coscienza di Hersh avevano squarciato il velo.

Ronald Haeberle. Sopra Hersh
Due questioni: la prima riguarda Hersh e tutte le difficoltà che incontrò. Eppure non aveva una fonte anonima ma un'intervista nientemeno che con Calley. La seconda riguarda le foto: si certo, poi le videro tutti ma prima fu solo un giornale di provincia che ebbe il coraggio di pubblicarle. I soloni delle fonti anonime non si erano accorti che un militare di leva dell'esercito -il sergente Ronald Haeberle - aveva fotografato il massacro e andava pure in giro a tenere conferenze mostrando quelle immagini che gli pesavano non poco sulla coscienza. 

La storia del giornalismo è piena di storie così (tra l'altro Seymour era un free lance): la notizia è buona ma "si, dai lascia perdere" oppure "quel nome non ce lo mettere". Nessuno se ne stupisce e qualche volta - qualche volta - fa anche senso. Anch'io mi sono sentito ripetere la manfrina quando non ho invece ricevuto addirittura qualche telefonata bonariamente minacciosa da qualcuno che era stato avvisato proprio dal giornale che stava pubblicando la mia storia. Conclusione? Credo più a Hersh che a Obama il quale ha appena mentito al nostro premier sulla morte di Lo Porto (o lo avete già dimenticato?), una morte - raccontata mesi dopo -  sulla quale abbiamo solo ricostruzioni ufficiose fatte - guarda un po' - grazie a fonti anonime. Che la Casa Bianca non si è data pena di smentire**. 

* Ho tratto gran parte di questo testo da "Lo scatto umano" scritto per Laterza con Mario Dondero il grande.
** La smentita su Hersh è arrivata anche dai pachistani che per rispondere all'articolo ci hanno messo cinque giorni. Risposta pronta direi!

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