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sabato 29 agosto 2015

La verità del vescovo

Nel gennaio scorso ho scritto una serie di servizi per il manifesto dallo Sri Lanka. Ieri, in vista della  pubblicazione del rapporto della Commissione Onu per i diritti umani, ne ho scritto ancora allegando una breve intervista al presule di Mannar, monsignor Rayappu. Qui ne do conto con più particolari.

Mannar – La città di Vavunya si trova alla base di una sorta di triangolo territoriale che grosso modo include le regioni tamil nel Nord e nel Nordest dello Sri Lanka. E' una sorta di porta d'accesso (o di uscita) da cui si può accedere - passando dalla città di Killinochi (la “capitale” delle Tigri tamil durante la guerra) - a Jaffna, la capitale del Nord, o a Mullaitivu nell'Est (dove si verificò nel 2009 la strage che portò alla sconfitta defintiva delle Tigri) o ancora all'isola di Mannar a Ovest. Ognuno di questi punti cardinali ha sofferto la sua tragedia durante un conflitto durato quasi trent'anni e conlusosi con un massacro che, secondo la commissione d'indagine Onu sarebbe responsabile di circa 40mila vittime: un numero enorme che il governo ha sempre contestato e che secondo altri è per difetto. Un numero impressionate perché la strage avvenne anche in zone di salvaguardia dichiarate no fly zone e comprende – oltre alle Tigri per la liberazione del Tamil Eelam (Ltte) civili locali e sfollati scappati da altre zone del Paese e concentratesi, alla vigilia dell'assalto finale, in un fazzoletto di terra a Nordest, a Sud du Mullaitivu. Tutto si svolse in pochi mesi, dall'ottobre 2008 a febbraio 2009 quando arrivò la spallata finale. Il mondo era allora alle prese con l'operazione Piombo fuso a Gaza e prestò poca attenzione a quel che accadeva nella “lacrima dell'India”, nella Perla dell'Oceano indiano, metà di turisti in cerca di spiagge assolate e di sabbia finissima circondate da stupa buddisti che inneggiano alla compassione. Ora anche il turismo comincia a far capolino nel Nord del Paese. Un'avanguardia ancora solitaria e scoraggiata, fino a a metà gennaio scorso, da permessi da richiedere e continui check point cui mostrare passaporti e lasciapassare.

Tra chi ritiene che i 40mila scomparsi siano in realtà molti di più c'è il vescovo di Mannar, Joseph Rayappu, un uomo noto per la franchezza con cui parla e la 
Aree rivendicate dai secessionisti tamil
risolutezza con cui ha sempre condotto la sua personale battaglia di verità su quei tragici cinque mesi sepolti ormai da una pace imposta col pugno di ferro dall'ex presidente Mahinda Rjapaksa, sconfitto alle elezioni del gennaio scorso da un suo sodale di partito che, alla vigilia del voto, si è proposto come candidato sbaragliandolo inaspettatamente. La residenza del presule si trova alla periferia della cittadina di Mannar, sull'omonima isola a una cinquantina di chilometri da Vavunya. I lavori di ristrutturazione della vecchia stazione sono allo stadio finale e tra poco anche il treno tornerà a sottrarre passeggeri agli autobus mal in arnese e sempre stracolmi che collegano l'isola alla terraferma attraverso un ponte di tre chilometri che sovrasta terre basse inondate dalle alluvioni monsoniche in inverno o dalla furia del mare, il cui livello è spesso più alto della costa, piena di sbarramenti per convogliare l'acqua dolce o impedire a quella salta di penetrare.


La bandiera dei secessionisti, le "Tigri"
Rayappu fu accusato
 di stare dalla loro parte

«Quarantamila morti? No – allarga le braccia il primate – le vittime furono di più, molte di più. Le cifre sono qua, minuziosamente lette e rilette, confrontando i dati ufficiali delle statistiche prima di quel dannato periodo. E parlano chiaro: la differenza tra chi abitava in quelle aree prima e chi ci viveva dopo, con l'aggiunta degli sfollati che vi si erano ritrovati, dà ben altra cifra, precisa alla singola unità: 146.679. Scomparsi, ma con nome e cognome. Tra loro vi sono i mariti di 89mila vedove. Il resto sono bambini, giovani ragazze, anziani... Alcuni dei sopravvissuti sono qui, in una casa di riposo al di là del muro. I primi sessanta li andai a prendere io stesso». Padre Joseph è sicuro. Così sicuro da portare i suoi dati alla Commissione istituita dal governo per conoscere la verità. «Non mi risposero neanche. Del resto cosa si può pretendere da una dittatura»? Il ministro della Difesa di allora e il presidente venivano dalla stessa famiglia: i Rajapaksa. E quando divenne scomodo, persino il generale Fonseka, che era stato l'autore della vittoria militare e che aveva osato sfidare Mahida alle elezioni, entrò in rotta di collisione. Una corte militare lo condannò a tre anni di galera per malversazioni. «Non è finita – aggiunge Rayappu – a militari in pensione e a contadini del Sud sono state date le terre confiscate ai tamil, a gente scappata dalla guerra o uccisa. Aree dove il governo ha investito in condutture, dove si allestiscono fattorie modello che sottraggono lavoro ai locali. Il piano era evidente: far diventare minoranza nella terra tamil importando singalesi. Uccidere la nostra cultura, mortificare lingua e tradizione: un genocidio culturale. Di più, un genocidio strutturale. La terra viene sottratta col mantra della “sicurezza”. In nome di quella si fa tutto, si annichilisce un popolo». Rayappu fu accusato di simpatie secessioniste: «Dicevano che ero amico delle Tigri perché chiedevo lumi sui morti che tutti i giorni vedevamo abbandonati in strada, ammazzati come cani in esecuzioni extragiudiziarie. Sa cosa mi rispondevano: si, ne abbiamo sentito parlare anche noi, stiamo indagando».



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