Nel gennaio scorso ho scritto una serie di servizi per il manifesto dallo Sri Lanka. Ieri, in vista della pubblicazione del rapporto della Commissione Onu per i diritti umani, ne ho scritto ancora allegando una breve intervista al presule di Mannar, monsignor Rayappu. Qui ne do conto con più particolari.
Mannar
– La città di Vavunya si trova alla base di una sorta di triangolo
territoriale che grosso modo include le regioni tamil nel Nord e nel
Nordest dello Sri Lanka. E' una sorta di porta d'accesso (o di
uscita) da cui si può accedere - passando dalla città di Killinochi
(la “capitale” delle Tigri tamil durante la guerra) - a Jaffna,
la capitale del Nord, o a Mullaitivu nell'Est (dove si verificò nel
2009 la strage che portò alla sconfitta defintiva delle Tigri) o
ancora all'isola di Mannar a Ovest. Ognuno di questi punti cardinali
ha sofferto la sua tragedia durante un conflitto durato quasi
trent'anni e conlusosi con un massacro che, secondo la commissione
d'indagine Onu sarebbe responsabile di circa 40mila vittime: un
numero enorme che il governo ha sempre contestato e che secondo altri
è per difetto. Un numero impressionate perché la strage avvenne
anche in zone di salvaguardia dichiarate no fly zone e
comprende – oltre alle Tigri per la liberazione del Tamil Eelam
(Ltte) civili locali e sfollati scappati da altre zone del Paese e
concentratesi, alla vigilia dell'assalto finale, in un fazzoletto di
terra a Nordest, a Sud du Mullaitivu. Tutto si svolse in pochi mesi,
dall'ottobre 2008 a febbraio 2009 quando arrivò la spallata finale.
Il mondo era allora alle prese con l'operazione Piombo fuso a
Gaza e prestò poca attenzione a quel che accadeva nella “lacrima
dell'India”, nella Perla dell'Oceano indiano, metà di turisti in
cerca di spiagge assolate e di sabbia finissima circondate da stupa
buddisti che inneggiano alla compassione. Ora anche il turismo
comincia a far capolino nel Nord del Paese. Un'avanguardia ancora
solitaria e scoraggiata, fino a a metà gennaio scorso, da permessi
da richiedere e continui check point cui mostrare passaporti e
lasciapassare.
Tra
chi ritiene che i 40mila scomparsi siano in realtà molti di più c'è
il vescovo di Mannar, Joseph Rayappu, un uomo noto per la
franchezza con cui parla e la
risolutezza con cui ha sempre condotto
la sua personale battaglia di verità su quei tragici cinque mesi
sepolti ormai da una pace imposta col pugno di ferro dall'ex
presidente Mahinda Rjapaksa, sconfitto alle elezioni del gennaio
scorso da un suo sodale di partito che, alla vigilia del voto, si è
proposto come candidato sbaragliandolo inaspettatamente. La residenza
del presule si trova alla periferia della cittadina di Mannar,
sull'omonima isola a una cinquantina di chilometri da Vavunya. I
lavori di ristrutturazione della vecchia stazione sono allo stadio
finale e tra poco anche il treno tornerà a sottrarre passeggeri agli
autobus mal in arnese e sempre stracolmi che collegano l'isola alla
terraferma attraverso un ponte di tre chilometri che sovrasta terre
basse inondate dalle alluvioni monsoniche in inverno o dalla furia
del mare, il cui livello è spesso più alto della costa, piena di
sbarramenti per convogliare l'acqua dolce o impedire a quella salta
di penetrare.
Aree rivendicate dai secessionisti tamil |
La bandiera dei secessionisti, le "Tigri" Rayappu fu accusato di stare dalla loro parte |
«Quarantamila
morti? No – allarga le braccia il primate – le vittime furono di
più, molte di più. Le cifre sono qua, minuziosamente lette e
rilette, confrontando i dati ufficiali delle statistiche prima di
quel dannato periodo. E parlano chiaro: la differenza tra chi
abitava in quelle aree prima e chi ci viveva dopo, con l'aggiunta
degli sfollati che vi si erano ritrovati, dà ben altra cifra,
precisa alla singola unità: 146.679. Scomparsi, ma con nome e
cognome. Tra loro vi sono i mariti di 89mila vedove. Il resto sono
bambini, giovani ragazze, anziani... Alcuni dei sopravvissuti sono
qui, in una casa di riposo al di là del muro. I primi sessanta li
andai a prendere io stesso».
Padre Joseph è sicuro. Così sicuro da portare i suoi dati alla
Commissione istituita dal governo per conoscere la verità. «Non
mi risposero neanche. Del resto cosa si può pretendere da una
dittatura»?
Il ministro della Difesa di allora e il presidente venivano dalla
stessa famiglia: i Rajapaksa. E quando divenne scomodo, persino il
generale Fonseka, che era stato l'autore della vittoria militare e
che aveva osato sfidare Mahida alle elezioni, entrò in rotta di
collisione. Una corte militare lo condannò a tre anni di galera per
malversazioni. «Non
è finita – aggiunge Rayappu – a militari in pensione e a
contadini del Sud sono state date le terre confiscate ai tamil, a
gente scappata dalla guerra o uccisa. Aree dove il governo ha
investito in condutture, dove si allestiscono fattorie modello che
sottraggono lavoro ai locali. Il piano era evidente: far diventare
minoranza nella terra tamil importando singalesi. Uccidere la nostra
cultura, mortificare lingua e tradizione: un genocidio culturale. Di
più, un genocidio strutturale. La terra viene sottratta col mantra
della “sicurezza”. In nome di quella si fa tutto, si annichilisce
un popolo».
Rayappu fu accusato di simpatie secessioniste: «Dicevano
che ero amico delle Tigri perché chiedevo lumi sui morti che tutti i
giorni vedevamo abbandonati in strada, ammazzati come cani in
esecuzioni extragiudiziarie. Sa cosa mi rispondevano: si, ne abbiamo
sentito parlare anche noi, stiamo indagando».
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