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domenica 17 aprile 2022

Sri Lanka fallisce ma i Rajapaksa restano


La ricorrenza del nuovo anno il 14 aprile, festeggiato giovedì da singalesi e tamil nello Sri Lanka, si è trasformata nell’ennesima protesta di piazza contro presidenza e governo della famiglia Rajapaksa. Una famiglia indicata come la responsabile della peggior crisi economica del Paese in oltre mezzo secolo e che ha portato l’esecutivo a dichiarare default: fallimento. Nonostante le proteste di piazza, seguite alla svalutazione della rupia e all’aumento dei prezzi, i due fratelli Rajapaksa – Gotabaya (presidente) e Mahinda (premier), dinastia locale in sella da decenni – sono però rimasti al loro posto nonostante le dimissioni in massa dei ministri (tre dei quali sempre della stessa famiglia). Le elezioni sono ancora lontane e sperano forse di riguadagnare terreno benché la loro popolarità sia ormai inversamente proporzionale all’aumento del costo della vita.

Benché a lungo contrario alle ricette del Fondo monetario, il clan Rajapaksa ha ora chinato la testa. Ma i sacrifici che il Fmi richiede, su base come minimo triennale, porteranno a una nuova emorragia di consensi. Come i Rajapaksa gestiranno il dossier, sempre che riescano a restare in sella, appartiene alle speculazioni sul futuro. Ma intanto sarà bene dare un’occhiata al passato per capire cosa abbia fatto del boom srilankese, nato dopo la fine di 26 anni di guerra civile contro il separatismo tamil, un buco nero senza fondo.

«Verso la fine della guerra, nel 2006, il governo – spiega l’economista Vidhura Tennekoon su The Conversation – ha cercato di far ripartire la crescita prendendo prestiti e attirando capitali. A breve termine la strategia ha funzionato. L’economia è esplosa, facendo salire il Pil pro capite da 1.436 dollari nel 2006 a 3.819 nel 2014. Ciò ha fatto uscire 1,6 milioni di persone dalla povertà e ha dato origine a un’ampia classe media. Nel 2019, lo Sri Lanka saliva ai ranghi dei Paesi a reddito medio-alto». La designazione tuttavia durerà solo un anno perché tutta quella crescita aveva un costo. «Il debito estero dello Sri Lanka era triplicato dal 2006 al 2012, portando il debito pubblico totale al 119% del Pil».

Nel 2015 il governo frena la sua politica ma il debito continua ad aumentare mentre, qualche anno dopo, l’arrivo del Covid colpisce il turismo, uno dei maggiori introiti di valuta (con le rimesse) del Paese. Nel 2020 il solo servizio del debito aveva svuotato le casse di oltre il 70% delle entrate del governo, spingendo la Banca centrale a stampare moneta: evitando il default ma alimentando l’inflazione. Rifiutando le ricette del Fmi il Paese ha così continuato a chiedere prestiti agli amici (cinesi soprattutto) mentre inflazione e penuria di beni di prima necessità andavano di pari passo. La crisi ucraina, con l’aumento dei prezzi dell’energia e la forte riduzione del turismo russo, ha sancito il collasso. Il 12 aprile scorso lo Sri Lanka ha annunciato uno stop del rimborso del debito estero, sia dei prestiti bilaterali sia di quelli ottenuti dalle istituzioni internazionali ma, nell’annunciare il default, ha dovuto accettare che la ristrutturazione del debito venga gestita dal Fondo monetario. Se per ora la fine del rimborso – lunedì si dovrebbero pagare 78 milioni di dollari di interesse sui titoli sovrani internazionali – può garantire beni acquistabili in valuta, la crisi non potrà che aggravarsi e costare lacrime e sangue ai 22 milioni di abitanti della Lacrima dell’Oceano indiano.

Quanto al sostegno dei Paesi amici, lo Sri Lanka se la deve vedere con India e Cina, i principali creditori: due Paesi che però si guardano in cagnesco e i cui prestiti sono finalizzati per Pechino a conservare i privilegi e per Delhi a recuperare i vantaggi in parte perduti con l’arrivo massiccio di investimenti cinesi. Le rivalità regionali e globali complicano anche il modo in cui lo Sri Lanka può far fronte al debito, spiega su Foreign Affairs, l’economista Dushni Weerakoon: «Fare affidamento su relazioni bilaterali può essere pericoloso nel contesto di rivalità geopolitiche. La Cina è il più grande creditore bilaterale dello Sri Lanka e i suoi investimenti sono aumentati negli ultimi dieci anni ma Pechino non ha ancora risposto all’appello per la cancellazione del debito… sebbene la quota dell’India sia inferiore, quel Paese continua a esercitare un’influenza formidabile sullo Sri Lanka in virtù della sua influenza politica ed economica». E ora New Delhi, che è stata danneggiata in passato dagli accordi con Pechino, prima di mettere mano al portafogli, chiede garanzie.

Pubblicato nell'edizione del 17 aprile 2022  del manifesto

martedì 19 novembre 2019

La vittoria dei fratelli Rajapaksa

Se le parole hanno un senso, un senso hanno anche gli aspetti cerimoniali. Soprattutto se si tratta dell’investitura di un presidente. E se Gotabaya Rajapaksa, fresco di vittoria elettorale, nel discorso inaugurale ha parlato di unità del Paese, la scelta cerimoniale sembra dire il contrario. Avviene nel cuore dello Sri Lanka ad Anuradhapura, una delle vecchie capitali. E’ qui che si trova il Ruwanweli Seya, enorme stupa bianco che fa da sfondo alla cerimonia d’insediamento. Fu costruito nel 140 a.C. da Dutugamunu, re “compassionevole” venerato dai buddisti anche perché sconfisse Ellalan, principe tamil di Chola, che aveva invaso il regno di Rajarata. Poco prima, per non farsi mancare nulla, Gotabaya aveva visitato lo Sri Maha Bodhi, il sacro fico che, di talea in talea, sarebbe il discendente diretto dell’albero indiano sotto cui Siddhartha Gautama Budda arrivò all’illuminazione.

Con oltre l’80% di partecipanti al voto, Gotabaya Rajapaksa ha preso il 52,25% delle preferenze dei 16 milioni di aventi diritto sgominando il suo principale rivale Sajith Premadasa (41,99%). Voto polarizzato dove non è difficile capire per chi abbia votato la maggioranza singalese buddista e dove sia andato quel 22% di voto che appartiene a tamil e musulmani, due comunità vessate che hanno buoni motivi per temere sia Gotabaya sia suo fratello Mahinda, già presidente due volte e ora possibile futuro premier. I due fratelli erano assieme nel 2009 quando l’esercito srilankese sgominò la secessione dei tamil nel Nord utilizzando modi che sono andati sotto il capitolo “crimini di guerra”. Gotabaya, pur se ora si dice un ferreo propugnatore dell’Agenda 2030 dell’Onu, in campagna elettorale aveva detto di non riconoscere la risoluzione del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, approvata dallo Sri Lanka nel settembre 2015 (dopo che il fratello aveva perso le elezioni in gennaio) che impegnava Colombo a soddisfare una serie di misure relative a diritti umani e giustizia, inclusi quindi ulteriori possibili passi sui fatti del 2009. Quanto ai musulmani, i pogrom dei buddisti radicali contro la sparuta minoranza, sono un pezzo delle attività di monaci e attivisti ultranazionalisti appoggiati dai Rajapaksa e loro base elettorale.

Gotabaya, oltre alle promesse di rito (sviluppo, equità, giustizia, corruzione) si è anche proclamato neutrale in politica estera. Lo sarà davvero? I cinesi, che si son precipitati a felicitarsi con lui, vedono di buon occhio il ritorno dei due fratelli che dopo qualche anno di disgrazie sono ora di nuovo al comando. Gli indiani (e gli americani) invece sono cauti. Su The Hindu, l’analista Suhasini Haidar ha ricordato un messaggio inviato nel 2014 dal governo Modi ai fratelli Rajapaksa quando Mahinda era presidente e Gotabaya titolare della Difesa. A Delhi non piaceva che Colombo avesse autorizzato l’attracco di navi da guerra cinesi nello Sri Lanka. Ma una settimana dopo, un sottomarino nucleare Changzheng (Lunga Marcia) e la nave di supporto Changxingdao erano comunque arrivati a Colombo per una visita di cinque giorni. “Con Gotabaya ora in carica – conclude Haidar - per Nuova Delhi tornano le preoccupazioni”. Non è solo una questione di navi da guerra ma di… perle.
Filo di perle è il nome esotico che la Rpc ha scelto per disegnare la mappe delle rotte marittime della Via della seta. Una delle perle è Sri Lanka dove i cinesi stanno lavorando con la China Harbour Engineering Company Ltd, il braccio d’oltremare della China Communications Construction Company, al porto di Hambatota, operazione miliardaria non ancora conclusa che ha indebitato fortemente il Paese. E che non piace né a Delhi né a Washington.

sabato 16 novembre 2019

Le strane elezioni oggi a Sri Lanka

Incombe su 16 milioni di elettori e su 35 candidati alla presidenza il ricordo ancora vivo delle bombe di Pasqua nello Sri Lanka che colpirono chiese e alberghi di lusso uccidendo più di 250 persone e ferendone diverse centinaia. Per forza di cosa, l’eredita di quella vicenda oscura – col suo corollario di scontri tra comunità in un Paese dominato dai singalesi buddisti ma con importanti minoranze musulmane e indù (tamil) - ha guidato la campagna elettorale all’insegna della sicurezza, un mantra diffuso e facile da sventolare nelle strategie della propaganda. L'altro tema è la povertà, malattia atavica, e lo sviluppo in un Paese che non cresce e il cui debito estero – oltre 34 miliardi di dollari – vale quasi il 40% del Pil. Sono debiti soprattutto con la Cina contratti dal presidente Mahinda Rajapaksa che nel 2015 fu defenestrato – al netto di un tentato golpe per rimanere in sella – da Maithripala Sirisena, l’uomo che ha dovuto affrontare le bombe rivendicate dallo Stato islamico e su cui una scia di polemiche e controversie si sono accompagnate a una campagna securitaria sottolineata da scontri tra comunità soprattutto a danno dei musulmani.

Sirisena e Rajapaksa non si presentano alle elezioni ma uno dei due candidati favoriti è un “loro” uomo: Gotabaya Rajapaksa, fratello di Mahinda e controverso ministro della Difesa durante la sconfitta della guerriglia del partito armato delle “Tigri Tamil” nel maggio del 2009 . Il paradosso è che Sirisena, acerrimo nemico dei Rajapaksa e uomo dello Sri Lanka Freedom Party (Slfp) – un partito fondato dal socialista Solomon Bandaranaike – ha poi cambiato bandiera durante il suo quinquennato: scegliendo proprio il vecchio Mahinda come premier con cui sostituire l’attuale – Ranil Wickremesinghe - che poi l’ebbe vinta per decisione della Corte suprema. Sirisena si dice neutrale ma il suo partito appoggia di fatto Gotayaba del quale già si sa che come premier vorrebbe suo fratello Mahinda. I due, che pure vengono in origine dallo Slfp, sono ora nello Sri Lanka Podujana Peramunama (o Sri Lanka People’s Front): rappresentano l’ala più nazionalista e identitaria singalese-buddista dello schieramento.

In questo quadro confuso di amici-nemici, con sullo sfondo il rapporto complesso con la Cina (di cui i fratelli Rajapaksa sono gran fautori) e con l’India e gli Stati Uniti (che videro con favore la vittoria di Sirirsena nel 2015 proprio sperando di scalzare l’influenza di Pechino), anche l’altro candidato che potrebbe essere letto superando il 50% dei voti è una vecchia conoscenza dell’establishment srilankese. Si chiama Sajith Premadasa, classe 1967, del United National party (Unp), partito liberal conservatore che ha avuto, col fratello di Sajiit - Ranasinghe Premadasa – un premier e un presidente fino al 1993 quando Ranasinghe fu ucciso dalle Tigri. Adesso l’Unp ha il premier Ranil Wickremesinghe che già abbiamo ricordato essere detestato sia da Sirisena sia dai Rajapaksa. Ma anche Sanjit, se eletto, potrebbe cambiare cavallo. Anche se comunque il presidente, cui spetta la nomina del premier, dovrà pur sempre aspettare le parlamentari del prossimo febbraio.

Intanto, in un Paese semi presidenzialista, vincere lo scranno più alto è importante. Se lo vince Gotayaba, col beneplacito di Sirisena e l’ombra del fratello alle spalle, cambierà completamente il quadro politico e la famiglia Rajapaksa tornerà a regnare, al netto delle accuse di nepotismo, corruzione e violazione dei diritti umani di cui han fatto scorta in questi anni. Se invece la vittoria andrà a Sanjit, che sembra meno propenso di loro a cavalcare la bandiera identitaria, rafforzerà l’Unp aiutandolo a vincere anche le elezioni politiche. Sullo sfondo resta la tensione nei rapporti internazionali: con un vicino potente come l’India che ha sempre considerato Colombo una sorta di provincia d’oltremare e un lontano competitor – la Cina – che ha nella “lacrima dell’Ocenao indiano” una delle gemme della sua “collana di perle”, la Via della seta per via marittima che passa proprio da Sri Lanka.

domenica 19 maggio 2019

Sri Lanka, arriva lo strongman

C’è una novità nella politica srilankese a pochi giorni dalla prima ricorrenza delle bombe di Pasqua che il 21 aprile uccisero oltre 250 persone in uno degli attentati recenti più sanguinosi. E’ una novità che ha in realtà un sapore antico poiché si riferisce non solo a un personaggio del passato ma anche a un uomo di cui è lecito dubitare proprio per il suo passato. Si chiama Gotabaya Rajapaksa ed è un fratello dell’ex presidente Mahinda – due mandati alle spalle – che qualche mese fa aveva tentato, con il bizzarro appoggio dell’attuale capo dello Stato suo ex rivale, di tornare in pista come premier. Le presidenziali si avvicinano e Mahinda aveva pensato di sfidare la legge correndo per un terzo mandato (vietato nello Sri lanka) ma dopo la sua recente e sfortunata avventura da premier (cancellata dal tribunale), deve averci ripensato. E così si fa avanti Gotabaya, l’uomo che dal novembre 2005 al gennaio 2015, quando Mahinda perderà le elezioni contro l’attuale presidente Sirisena, ha ricoperto l'incarico di segretario generale alla Difesa. Non è un titolo qualsiasi e non fu un decennio qualsiasi....continua su atlanteguerre.ithttps://www.atlanteguerre.it/sri-lanka-si-fa-avanti-luomo-forte/

Questo articolo è uscito oggi anche su il manifesto

mercoledì 15 maggio 2019

Caccia al musulmano

Gran parte della provincia nordoccidentale dello Sri Lanka ha visto un’ondata di violenze anti musulmane senza precedenti che ha costretto ieri il governo a imporre nuovamente il coprifuoco. Lunedi la misura escludeva altre aree del Paese ma da ieri sera coinvolge tutta l’isola e non solo il Nord Ovest, la provincia centro occidentale a Nord di Colombo al centro dei pogrom anti islamici di inizio settimana. Questa volta non si è trattato di una fiammata estemporanea o di qualche reazione emotiva troppo violenta come in altri episodi recenti quando un banale incidente – come accaduto una settimana fa a Negombo – aveva dato la stura a una sorta di caccia al musulmano. Il coprifuoco ha orari diversi nelle varie province.

La violenza scatta lunedi un po’ in tutta la provincia e a Kurunegala – specifica un quotidiano locale – un uomo di 42 anni resta vittima di uno dei tanti pogrom. Lo portano in ospedale ma Mohammed Ameer Mohammed Sally non ce la fa. Aveva ferite d’arma da fuoco. Il resto si fa con bastoni, coltelli e taniche di benzina. Fuoco alle moschee, ai testi sacri, ai negozi dei musulmani. La lista è lunga: a Kiniyama, centinaia di persone prendono d’assalto una moschea, distruggendo porte e finestre e dando alle fiamme il Corano. A Chilaw, negozi e moschee di proprietà musulmana vengono attaccati dopo una disputa via Fb. Incidenti a Hettipola. L’incendio di un pastifico a Minuwangoda senza che, dice il proprietario, la polizia intervenga. Ce n’è anche per i rifugiati: Sadaf, un dodicenne afgano, deve cercare rifugio dalla polizia, racconta Deutsche Welle. Gli era già successo dopo la Pasqua di sangue quando attentatori suicidi hanno ucciso oltre 250 cattolici. Lui e altri 150 ospiti di un campo profughi avevano dovuto cercare riparo in un commissariato... continua su atlanteguerre

domenica 28 aprile 2019

Sri Lanka: tutti i rischi della "caccia all'uomo"

Sainthamaruthu è una cittadina di 25mila abitanti dello Sri Lanka orientale. Completamente musulmana. E’ qui che la notte tra venerdi e sabato si è verificata l’ennesima strage. La versione ufficiale racconta che sedici persone sono morte dopo un’intensa sparatoria nata da un raid per verificare un possibile nascondiglio di militanti. Tra i morti nel covo ci sono tre donne e sei bambini. La zona è quella del predicatore Zahran Hashim, capo del National Thowheed Jamath (al bando con Jamathei Millathu Ibrahim) - supposta mente del gruppo di fuoco della Pasqua di sangue - che si è fatto esplodere all’Hotel Shangri-La di Colombo durante gli attentati di domenica scorsa. Uomini armati hanno aperto il fuoco dall’abitazione mentre il commando tentava il raid; poi tre militanti loro si sono fatti esplodere uccidendo tutti quelli che erano con loro mentre altri tre sono stati uccisi fuori dalla casa. Un civile è finito in mezzo al fuoco incrociato durato un’ora. L’uomo è morto mentre una donna e un bambino sono stati feriti. Poi è arrivata la tv: i filmati sulla televisione di Stato mostrano corpi carbonizzati all'interno della casa, esplosivi, un generatore, un drone, batterie. Il raid avrebbe avuto origine da una soffiata.

Tutto sembra funzionare seppur con qualche sbavatura: com’è possibile che in una casa dove si fanno saltare in aria tre persone si riescano a rinvenire intatti degli esplosivi? Sono domande destinate a ripetersi. Effetti collaterali dello stato di emergenza scatenato dalla reazione agli attentati di Pasqua. C’è di più: in casa la polizia avrebbe trovato una bandiera dello Stato islamico e uniformi (intatte?) simili a quelle indossate dagli otto combattenti mostrati nell’immagine pubblicata dall’Isis per rivendicare la strage. Un’immagine in cui stava al centro – unico a volto scoperto – proprio Zahran Hashim.

Lo stato di emergenza non si vedeva nello Sri Lanka dal 2011 quando fu levato a due anni di distanza dalla strage che chiuse definitamente la partita con le Tigri Tamil, l’organizzazione secessionista che per oltre vent’anni aveva tenuto in scacco il governo con una guerra costata decine di migliaia di vittime. Lo stato di emergenza conferisce alle forze di sicurezza ampi poteri di ricerca, arresto e censura. Si accompagna a un bando sui social media e al coprifuoco notturno imposto già dal giorno degli attentati. Le preoccupazioni non mancano. “I regolamenti di emergenza – confida ad Al Jazeera Meenakshi Ganguly, direttore per l’Asia meridionale di Human Rights Watch - sono stati messi in atto quasi ininterrottamente dal 1971 al 2011 concedendo ampi poteri per cercare, arrestare e detenere, il che ha portato a gravi violazioni dei diritti umani". Alan Keenan, dell'International Crisis Group, condivide: “C'è motivo di seria preoccupazione per l'ampia portata dei nuovi reati dichiarati nei regolamenti di emergenza. Molte attività legali in precedenza sono state criminalizzate sulla base di una nozione ampia e mal definita di sicurezza nazionale”.

Il decreto presidenziale che ha messo in vigore lo stato d’emergenza consente di vietare assemblee pubbliche e di detenere i sospetti per tre mesi senza un mandato del giudice. Infine è possibile vietare la pubblicazione di scritti che possano minare la sicurezza nazionale o l'ordine pubblico. Come? Un giornale non può adesso rifiutare la censura preventiva pena la chiusura. Intanto il dipartimento di Stato americano sollecita i cittadini degli Stati Uniti a lasciare lo Sri Lanka sostenendo che “i gruppi terroristici continuano a pianificare possibili attacchi” e possono attaccare ovunque dalle località turistiche ai mercati, dai ristoranti agli ospedali.

Articolo uscito oggi su ilmanifesto.it

sabato 27 aprile 2019

Caccia all'uomo a Sri Lanka

I corpi di 15 persone, tra cui sei bambini giacciono sul luogo di una feroce battaglia con armi da fuoco avvenuta questa notte in una città orientale dello Sri Lanka. E’ solo l’ultimo episodio di una caccia all’uomo nel dopo strage di Pasqua. Del resto l’avvertimento è chiaro: stanarli casa per casa. E’ una strategia da emergenza nazionale - molto simile a quella impiegata nella guerra contro le Tigri tamil che volevano una regione autonoma nel Nord – la promessa del presidente dello Sri Lanka Maithripala Sirisena. “Verranno controllati tutti i nuclei familiari del Paese e verranno stabiliti gli elenchi dei residenti permanenti di ogni casa per garantire che nessuna persona sconosciuta possa vivere da nessuna parte". Casa per casa, in città e in campagna, la caccia è cominciata per far piazza pulita di chi potrebbe avere a che fare con gli estremisti islamici indicati come i colpevoli della strage di Pasqua rivendicata dallo Stato islamico. Nella foto pubblicata dagli uffici stampa del califfo l’unica figura a volto scoperto, insieme a sette “martiri”, è proprio il capo del National Thowheed Jamath, Zahran Hashim (aka Mohammed Zahran), predicatore radicale e supposta mente del gruppo di fuoco. Si è fatto saltare all’Hotel Shangri-La di Colombo durante gli attentati di domenica. Sirisena lo conferma e intanto si scusa per il buco nero nei servizi srilankesi che dipendono da lui. Lui che non ne sapeva niente così come il premier Ranil Wickremesinghe, anche lui all’oscuro di quell’informazione del 4 aprile – saltata fuori anche grazie alla pubblicazione di un memo di una settimana dopo – che metteva in guardia su possibili attentati...( continua su atlanteguerre)

giovedì 25 aprile 2019

Sri Lanka: i musulmani temono ritorsioni

Crescono in Sri Lanka le preoccupazioni dei musulmani locali per possibili attacchi contro la comunità sull’ondata delle emozioni suscitate dalla strage nelle chiese cattoliche. E mentre prosegue l’indagine sulla pista islamista, presidente e governo continuano a non essere in sintonia e sostengono che nelle loro mani non è mai arrivato l'allerta che avrebbe potuto evitare gli attentati


Il presidente Maithripala Sirisena, che aveva promesso "un'azione severa" verso chi non aveva trasmesso i famosi allerta arrivati dall’intelligence indiana e americana che prospettavano attacchi alle chiese e che già facevano il nome del gruppo islamista ora indicato come l’organizzazione che ha progettato la Pasqua di sangue, è sempre al centro della una polemica: l’esecutivo sostiene che la presidenza sapeva mentre il governo non era stato informato. Sirisena ribatte che non ne sapeva nulla. Così è passato dalle parole ai fatti: ha chiesto le dimissioni di due pezzi grossi della macchina statale. Il primo è il segretario alla Difesa Hemasiri Fernando, anche a capo dello staff presidenziale e del Board of Investment del Paese. Il secondo è l'ispettore generale della polizia, Pujith Jayasundara. E’ il memo dell’11 aprile redatto dal suo vice Priyalal Dassanayake ad aver messo in imbarazzo il presidente. E a questo punto non si capisce più chi quel memo abbia letto, chi lo abbia ignorato o sottovalutato o addirittura cestinato. Sia presidenza sia governo negano infatti di essere stati informati... continua su atlanteguerre

martedì 23 aprile 2019

Quattro scenari per una strage

Il governo dello Sri Lanka punta l’indice sull’estremismo islamico mentre continua a salire il bilancio delle vittime della Pasqua di sangue

Il giorno dopo la strage che ha stravolto lo Sri Lanka è la pista islamica quella che sembra essere nelle corde del governo e della maggior parte di commentatori, analisti e di pezzi da novanta come il segretario di Stato americano Pompeo che promette guerra al terrore. Mentre il lunedi si chiude con coprifuoco e stato di emergenza – che consegna il controllo della sicurezza al presidente - e mentre la giornata sconta l’ennesima bomba vicino alla chiesa di Sant'Antonio a Colombo (dove resta lievemente ferito l’inviato di Repubblica, Raimondo Bultrini) si fanno i conti della Pasqua di fuoco: quando l’esplosione quasi simultanea di autobombe e kamikaze ha colpito quattro alberghi di lusso della capitale e tre chiese a Colombo, Negombo (poco più a Nord) e Batticaloa nell’Est.

Il bilancio cresce di ora in ora e sfiora quota 300 morti. Diverse centinaia i feriti. In assenza di rivendicazioni, l’indice è puntato su un gruppo radicale locale, la National Thowheed Jamath, un’associazione minore estremista e nota al più per atti vandalici non a caso contro obiettivi buddisti (le due comunità si sono spesso scontrate con gravi incidenti come nel marzo scorso). Il ministro della sanità Rajitha Senaratne ha confermato ieri che i sette kamikaze apparterrebbero a questo gruppo anche se è difficile capire dal corpo martoriato di un attentatore la sua provenienza. Sono presumibilmente di questo gruppo anche gli arrestati che già in parte domenica sera erano stati ammanettati dalla polizia. Senaratne è andato oltre, accusando il presidente Sirisena di non aver dato credito – e di aver nascosto al premier Wickremesinghe – le allerta dei giorni scorsi. Sirisena, presidente dal gennaio 2015, è anche a capo delle forze di sicurezza e forse ha sottovalutato l’allarme. Ma la vicenda riporta allo scontro interno alla politica locale tra presidenza e parlamento, tra Sirisena e Wikremesinghe. Forse è da qui che si può partire per disegnare almeno il contesto in cui le stragi sono avvenute e prima di avventurarsi nell’indicare questa o quella pista.

Il quadro politico

Maithripala Sirisena si presenta come l’uomo nuovo della politica srilankese quando a sorpresa si candida contro Mahinda Rajapaksa, il padre padrone del Paese. Rajapaksa è l’uomo che ha represso le rivendicazioni tamil nel Nord e distrutto – con stragi che non risparmiano civili – la struttura delle Tigri tamil, gruppo secessionista autore di numerosi attentati terroristici (i primi, dopo i giapponesi, a utilizzare kamikaze). Rajapaksa è accusato di essere un autocrate che, circondato da fratelli e parenti, ha garantito un piccolo miracolo economico ma “venduto” il Paese alla Cina. Alla fine del voto, il dittatore – che ha perso nelle urne – tenta un golpe che fallisce in poche ore. Sirisena sale sullo scranno applaudito dal popolino e benedetto dalle ambasciate di Delhi e Washington. Ma qualche anno dopo, nell’ottobre scorso, sconfessa – sorprendentemente - il premier Wickremesinghe e al suo posto insedia proprio l’ex nemico. C’è un braccio di ferro, qualche scontro e qualche vittima. Poi la Corte suprema delegittima l’azione del presidente e Wikremashinghe torna in sella. Il tutto ha un sapore oscuro, con un balletto bizzarro di personaggi e una crisi – che come dimostrano queste ore – perdura.... (segue su atlanteguerre.it)

venerdì 9 marzo 2018

Dietro le violenze a Sri Lanka

Il governo dello Sri Lanka ha ordinato nuovamente ieri dalle sei di sera il coprifuoco nell’intero distretto di Kandy, nello Sri Lanka centrale. La misura, già presa dopo un week end di violenze ai danni della comunità musulmana, era stata rinforzata con lo stato di emergenza e l’invio di soldati, ma un’ennesima ondata di violenza ha preso di mira mercoledi alcuni villaggi nei sobborghi di Kandy – la capitale di distretto - mettendo a ferro e fuoco alcune zone della periferia di Akurana, ampio sobborgo che dista da Kandy una decina di chilometri. L’intero distretto e la stessa città di Kandy - che conserva un dente del Budda e che è meta di turisti e commercianti di tè la cui produzione l’ha resa famosa nel mondo - sono nell’occhio del ciclone. Il bilancio dell’ennesima giornata di violenze ha portato a oltre ottanta arresti mentre non è ancora chiaro il bilancio di vittime e feriti. Sono stati incendiati negozi e bruciate case di musulmani mentre sono stati colpiti, seppur sommariamente, alcuni templi buddisti. Tutto comincia a fine febbraio quando, dopo un incidente stradale, un autista singalese viene bastonato da un gruppo di musulmani. Sabato 3 marzo muore. I responsabili vengono arrestati e così alcuni singalesi che cominciano a vendicarsi. Ma il loro arresto viene contestato e da lì sarebbero scattate le violenze del week end scorso.

L'inviato Onu Feltmn
L’episodio ricorda da vicino quanto accadde nelle isole Molucche dell’Indonesia nel 1999: un banale incidente dette la stura a un conflitto settario tra musulmani e cristiani che durò dal 1999 al 2002. Ma quel fatto banale nascondeva una strategia del caos che mise in crisi la neonata democrazia indonesiana che si era appena liberata della dittatura di Suharto. Dietro agli scontri, più che l’odio tra comunità delle Molucche, c’era la pianificazione di una crisi che doveva colpire Giacarta.

mercoledì 7 marzo 2018

Lo stato di emergenza a Sri Lanka non ferma la violenza

Il simbolo della Bodu Bala Sena
organizzazione radicale buddista
accusata degli incidenti
Lunedi le autorità dello Sri Lanka hanno imposto il coprifuoco a Kandy, capitale di un distretto centrale del Paese asiatico, dove si sono verificati gravi incidenti tra estremisti buddisti e musulmani. Fortunatamente senza vittime. La polizia, sostengono alcune fonti, avrebbe agito tardivamente durante i due giorni di scontri, sebbene sui social fossero stati diffusi gli appuntamenti dei buddisti radicali che son poi sfociati in violenze e incendi contro moschee e negozi. Ieri però il governo ha deciso di estendere a tutto il Paese lo stato di emergenza, una misura estrema che restituisce il clima di questi giorni e che fa paventare la possibilità di nuove violenze che non si sarebbero limitate infatti alla sola regione di Kandy - famosa per essere una meta turistica e nota per le piantagioni di te - ma sarebbero esplose anche in altre zone del Paese dove vive la minoranza di circa 2 milioni di musulmani (il 10% dei 21 milioni di abitanti). Il 75% sono singalesi buddisti con cui convive anche una importante comunità hindu: i tamil del Nord, arrivati nell’isola secoli or sono, e quelli che lavorano proprio a Kandy, figli dell’immigrazione che i britannici imposero a diverse famiglie indiane costrette a lavorare nelle piantagioni, logica ricorrente nell’Impero d’Oltremare di Londra. Lo stato di emergenza non sembra però aver impedito nuovi attacchi a siti religiosi  e negozi nell'area suburbana di Kandy che si sono verificati anche dopo l'imposizione della drastica misura. Nessun morto ma diversi feriti e arresti.

lunedì 25 aprile 2016

C'è una lacrima nel mio tè / 2

Quando nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione, Sri Lanka era ancora famosa per la produzione del caffè che, trapiantato nell'isola dagli olandesi, era diventato una coltura davvero importante coi britannici e doveva raggiungere il suo picco produttivo nel 1870 con oltre 100mila ettari coltivati. Ma la Hemileia vastatrix, un fungo che “arrugginisce” le foglie del caffè, era in agguato e nel giro di pochi anni “Devasting Emily”, come era soprannominata la malattia del caffè, fece piazza pulita del chicco di Arabica che, agli inizi del 1900, resisteva solo su un decimo degli ettari un tempo coltivati. Il tè diventò la chiave di volta dell'economia di piantagione della Lacrima dell'Oceano indiano. La pianta era arrivata dalla Cina nel 1824 ed era stata interrata, a scopo ornamentale, nel Royal Botanical Garden di Kandy (nella foto in alto), forse il posto ancor oggi più affascinante della città. James Taylor, uno scozzese arrivato a Sri Lanka nel 1854, ebbe l'intuizione vincente e provò a fare del tè una coltura intensiva. Taylor, che aveva studiato in India i sistemi di coltivazione del tè, cominciò con meno di un ettaro nel 1867 mentre la “Emily” devastava le piantagioni di caffè. Nel 1872 impiantò la prima fabbrica che essiccava e impacchettava il tè e nel 1875 fece partire la sua prima nave per il Regno Unito. L'epopea del tè srilankese era cominciata ma l'accelerazione vera arriverà qualche anno dopo, quando nel 1890 il milionario Sir Thomas Johnstone Lipton - un nome che è ancora oggi associato all'intramontabile bevanda - sbarcò a Ceylon e conobbe Taylor. I due studiarono come fare del nero liquido derivato dal decotto della Camellia sinensis un oro nero che trasformasse le tenere foglioline della pianta asiatica in sonanti monete d'argento con l'effigie della regina Vittoria. E ci riuscirono. Un anno dopo la morte di Taylor, un milione di pacchetti del suo tè raggiungevano gli Stati Uniti.

La storia del tè a Sri Lanka è dunque britannica e tale rimarrà sino agli anni Settanta del secolo scorso quando, nel 1972 e nel 1975, due leggi dello Stato ormai indipendente dal 1948 nazionalizzeranno le piantagioni sottraendole alle Corporation e decretando la fine dello sfruttamento coloniale.

domenica 24 aprile 2016

C'è una lacrima nel mio tè/ 1

Lo Sri Lanka è uno dei grandi produttori mondiali di tè. Adesso in crisi perché l'oro nero in tazza segue l'andamento dei prezzi del petrolio e i suoi profitti sono in caduta libera. E chi lo comprava ne sta acquistando meno


Kandy (Sri Lanka)- Il baracchino lungo la strada apre alle sei del mattino. La gente passa per le frittelle e un tè nero o col latte. Ma è una piccola delusione il primo sorso del prodotto che, con la bellezza della sue coste, ha reso nota la Lacrima dell'Oceano indiano. Il tè che si beve a Sri Lanka è solo una cattiva imitazione di quello che, con un ampio gesto del braccio, viene miscelato al latte da una tazza all'altra nei cay shop indiani da Peshawar a Calcutta. E' scadente persino a Kandy, la capitale del tè, una cittadina di 100mila abitanti arrampicata su colline di un verde intenso e affacciata su un lago. Ci si arriva in treno o con qualche autobus mal in arnese dove la costante di ogni fermata è la tazza di oro nero. Sì, perché Kandy è famosa per due cose: un dente del Budda, conservato con religiosa attenzione in un enorme palazzo sul lago, e il tè. Un tempo era anche un buen retiro, prima che il turismo di massa, impennatosi dopo la fine della guerra civile nel 2009, portasse orde di viaggiatori e il relativo lavorio di ruspe e betoniere. Oggi, un albergo con vista lago – nella parte alta della città - è un hotel con vista albergo: uno davanti all'altro con una gara a quale sarà più alto.

Se la città ha perso un po' della sua magia, come per altro accade ad altri luoghi del sogno cartolina del subcontinente - da Goa a Kovalam Beach per citare i più noti - i dintorni riscattano la fama di una città che da antica capitale del Paese è diventata la capitale del tè del pianeta. Benché si possa comprare nel caotico bazar della città, un piccolo edificio a due piani compresso da negozietti che vendono spezie e tè a prezzi esorbitanti, vale al pena di andare a cercarlo nelle colline dove nel 1867 il britannico James Taylor impiantò la prima piantagione. E gli disse bene. Oggi si coltiva su quasi 200mila ettari: la qualità per l'estero è famosa e Sri Lanka è tra i primi produttori ed esportatori del pianeta. Circa un milione di persone lavorano nell'industria del tè, un capitolo torbido della sua Storia passata e recente.

sabato 29 agosto 2015

La verità del vescovo

Nel gennaio scorso ho scritto una serie di servizi per il manifesto dallo Sri Lanka. Ieri, in vista della  pubblicazione del rapporto della Commissione Onu per i diritti umani, ne ho scritto ancora allegando una breve intervista al presule di Mannar, monsignor Rayappu. Qui ne do conto con più particolari.

Mannar – La città di Vavunya si trova alla base di una sorta di triangolo territoriale che grosso modo include le regioni tamil nel Nord e nel Nordest dello Sri Lanka. E' una sorta di porta d'accesso (o di uscita) da cui si può accedere - passando dalla città di Killinochi (la “capitale” delle Tigri tamil durante la guerra) - a Jaffna, la capitale del Nord, o a Mullaitivu nell'Est (dove si verificò nel 2009 la strage che portò alla sconfitta defintiva delle Tigri) o ancora all'isola di Mannar a Ovest. Ognuno di questi punti cardinali ha sofferto la sua tragedia durante un conflitto durato quasi trent'anni e conlusosi con un massacro che, secondo la commissione d'indagine Onu sarebbe responsabile di circa 40mila vittime: un numero enorme che il governo ha sempre contestato e che secondo altri è per difetto. Un numero impressionate perché la strage avvenne anche in zone di salvaguardia dichiarate no fly zone e comprende – oltre alle Tigri per la liberazione del Tamil Eelam (Ltte) civili locali e sfollati scappati da altre zone del Paese e concentratesi, alla vigilia dell'assalto finale, in un fazzoletto di terra a Nordest, a Sud du Mullaitivu. Tutto si svolse in pochi mesi, dall'ottobre 2008 a febbraio 2009 quando arrivò la spallata finale. Il mondo era allora alle prese con l'operazione Piombo fuso a Gaza e prestò poca attenzione a quel che accadeva nella “lacrima dell'India”, nella Perla dell'Oceano indiano, metà di turisti in cerca di spiagge assolate e di sabbia finissima circondate da stupa buddisti che inneggiano alla compassione. Ora anche il turismo comincia a far capolino nel Nord del Paese. Un'avanguardia ancora solitaria e scoraggiata, fino a a metà gennaio scorso, da permessi da richiedere e continui check point cui mostrare passaporti e lasciapassare.

Tra chi ritiene che i 40mila scomparsi siano in realtà molti di più c'è il vescovo di Mannar, Joseph Rayappu, un uomo noto per la franchezza con cui parla e la 
Aree rivendicate dai secessionisti tamil
risolutezza con cui ha sempre condotto la sua personale battaglia di verità su quei tragici cinque mesi sepolti ormai da una pace imposta col pugno di ferro dall'ex presidente Mahinda Rjapaksa, sconfitto alle elezioni del gennaio scorso da un suo sodale di partito che, alla vigilia del voto, si è proposto come candidato sbaragliandolo inaspettatamente. La residenza del presule si trova alla periferia della cittadina di Mannar, sull'omonima isola a una cinquantina di chilometri da Vavunya. I lavori di ristrutturazione della vecchia stazione sono allo stadio finale e tra poco anche il treno tornerà a sottrarre passeggeri agli autobus mal in arnese e sempre stracolmi che collegano l'isola alla terraferma attraverso un ponte di tre chilometri che sovrasta terre basse inondate dalle alluvioni monsoniche in inverno o dalla furia del mare, il cui livello è spesso più alto della costa, piena di sbarramenti per convogliare l'acqua dolce o impedire a quella salta di penetrare.

venerdì 28 agosto 2015

Quel treno per Jaffna

Dopo un lungo tira e molla durato anni, la Commissione Onu per i diritti umani pubblica il suo rapporto sulla strage dei tamil del 2009 in Sri Lanka. Il governo lo riceve in queste ore in anteprima. Ma la giustizia sembra davvero lontana. Reportage dal sogno del Tamil Eelam (le puntate precedenti sono state pubblicate in gennaio) 

Il treno si ferma nel cuore della notte in una piccola stazioncina senza nome della linea Colombo Jaffna. In realtà è arrivato al confine della regione tamil di Vanni, che nello Sri Lanka comprende quattro distretti che, con la penisola di Jaffna, formano la terra tamil. Salgono i militari, fucile spianato, giovanissima età, quasi nessuna parola fuor della loro lingua. Chiedono il passi per poter varcare la frontiera immaginaria tra lo Sri Lanka a maggioranza singalese e l'area dove la maggioranza è invece formata da tamil in gran parte induisti, una comunità venuta dall'India del Sud secoli fa. Come del resto i singalesi, adesso in maggioranza buddisti. Non capiamo o fingiamo di non capire: il passi non l'abbiamo. E' il gennaio dell'anno scorso e ci sono appena state le elezioni, conclusesi con la disfatta del regime di Mahinda Rajapaksa, l'uomo che ai tamil ha fatto la guerra per anni e che, alla fine, l'ha vinta con una strage. Senza giustizia, nella piena impunità. Il passi lo avevano levato ma adesso chissà, sembra di nuovo in vigore, forse per via delle elezioni. Gentilmente ma fermamente ci fan scendere la treno. La notte è umida e fresca ma non c'è nemmeno un po' di luna a rischiarare un paesaggio così buio che nemmeno le mostrine dei soldati han l'occasione di brillare. Nella stazione non c'è anima viva oltre le divise verdi. E nonostante due giovani reclute di sesso femminile che ridacchano tra loro rompendo la tensione, un brivido gelato corre lungo la schiena. Questa è terra di esecuzioni sommarie.

Una lacrima nell'Oceano indiano
E invece dopo un po' arriva un camion militare e si arriva velocemente al posto di blocco: un'enorme
caserma con un palo abbassato. C'è una fila di tamil e qualche turista, come noi senza passi. «L'avevano levato», protesta un tamil con passaporto britannico che viene trattato – a casa sua – come uno straniero. Chi è partito all'estero – e forse per questo si è salvato – paga questo prezzo. Uno di loro ci dà un passaggio la mattina dopo quando, dopo un fax a Colombo, veniamo liberati. La carreggiabile A9 verso la penisola di Jaffna corre tra due ampi margini di terra aggrediti dalla foresta e del tutto incolti, interrotti da qualche grossa fattoria che sembra appena impiantata. «Lo è – dice l'autista – sono terreni confiscati e alienati a singalesi mandati qua per ripopolare un'area che è stata svuotata di noi tamil. Non ci sono case lungo la strada? Sono state distrutte, la gente cacciata. E i terreni adesso dati a militari che hanno finito la ferma. Per loro c'è acqua, pozzi, sementi. Per noi persino l'obbligo di non celebrare i nostri morti». Torna quel brivido lungo la schiena. Gelato e affilato come la lama di una baionetta.

mercoledì 28 gennaio 2015

Corviale ai tropici. Cartolina da Sri Lanka

Prima di lasciare Sri Lanka alla volta dell'India e dopo aver verificato che i traghetti dall'isola di
Mannar per la terraferma non sono ancora stati ripristinati, si sceglie la cittadina più vicina all'aeroporto che è per forza di cose la città di Negombo, praticamente attaccata allo scalo internazionale a una trentina di chilometri a Nord della capitale. Ovviamente non siamo sorpresi che si tratti di una località turistica dal momento che non è nemmeno necessario passare da Colombo per raggiungerla se si viene dall'Europa.

Negombo è una cittadina sul mare con una bella laguna, canali scavati dagli olandesi e dominata da quel che resta del vecchio forte che la Voc, la compagnia delle Indie, aveva strappato ai portoghesi, primi europei a dominare la perla dell'Oceano indiano. Poi però la cittadina è andata sviluppandosi turisticamente soprattutto lungo una strada in riva alla spiaggia costellata di piccoli alloggetti che si fanno via via più grandi sino a diventare degli ecomostri. La foto a fianco indica una sorta di "Corviale beach" che, rispetto alla mostruosità architettonica della capitale italiana, consta solo di circa 500 metri in meno rispetto al chilometro di Corviale. Ma l'impatto è del tutto simile. L'opera è in costruzione ma, viene da chiedersi: chi sarà mai tanto pazzo da fare le vacanze a Corviale? Pubblico di seguito alcune brutture alberghiere e invece alcuni scorci piacevoli di Negombo, sempre a proposito dei guasti del turismo. La differenza tra portare soldi e portare ...sviluppo.*

martedì 27 gennaio 2015

Una lacrima nell'Oceano Indiano

Cosa resta nello Sri Lanka della visita pastorale di papa Francesco, primo papa metter piede in terra tamil dove per trent'anni si è combattuta una guerra feroce. Luci e ombre della Chiesa cattolica in un Paese in rapida evoluzione. Diario da Taprobane


Sri Lanka è un Paese che ha facce diverse, come quella del minorenne nelle cucine della guest house, e cento nomi: i latini la dicevano Taprobane e i musulmani Serendib. I portoghesi la chiamarono Ceilão, Ceylan gli olandesi, Ceylon gli amministratori di sua Maestà britannica che ne fecero la capitale mondiale del tè. C'è chi la chiama la lacrima dell'India per quella forma a goccia come staccatasi dal subcontinente. Ma Sri Lanka non è India e, paradossalmente – forse per quelle sue influenze olandesi e portoghesi – ha un paesaggio urbano che a volte ricorda più l'Indonesia che non la grande, potente e temuta vicina da cui giunsero prima i sinhala (singalesi), poi i tamil – nel Nord – infine un milione di altri tamil “importati” dal Raj britannico per le piantagioni di tè nelle Hill. Ma il termine lacrima non è davvero poco appropriato. In questo Paese, dove la disomogeneità etnico religiosa anziché diventare un pregio è stata l'occasione di rivolte e segregazioni e di una guerra durata 27 anni, di lacrime ne sono state versate così tante che si è perso il conto dei morti di cui una macabra contabilità senza trasparenza non è ancora riuscita a dare un numero preciso che può variare da 100 a 200mila morti. Volti spesso senza tomba e nella gran parte dei casi dichiarati semplicemente missing, scomparsi.

Ora che il conflitto è finito, il Nord dove la guerra è divampata agli inizi degli anni Ottanta, si può visitare. E, solo da qualche giorno, senza più restrizioni, una delle prime decisioni del nuovo governo Sirisena uscito vittorioso dal voto dell'8 gennaio scorso. Abbiamo così avuto l'opportunità di assistere all'ultima coda di tamil con passaporto estero o di stranieri in visita ma senza autorizzazione (come noi!), stazionare alle baracche dell'esercito che sbarrano, sull'ex linea del fronte, la carreggiabile A9 che da Kandy via Anuradhapura porta a Jaffna. Fermi, in attesa che da Colobo arrivasse il permesso per attraversare quella che una volta segnava una delle tante linee di demarcazione della regione di Vanni, l'area divisa in quattro distretti che con la penisola di Jaffna forma la terra tamil. A Jaffna, città di un certo fascino, ha sede la capitale della regione che le Tigri del Tamil Eelam (Ltte) – la guerriglia secessionista – riuscirono ad amministrare a periodi alterni anche se la vera capitale amministrativa era Killinochi.

domenica 25 gennaio 2015

Colombo-Milano: luci e ombre del nuovo e del vecchio corso

L'ultima notizia sulla bufera scatenata dalle notizie sulla notte del voto, quando Rajapaksa avrebbe convocato il consigliere giuridico del presidente e i capi di polizia ed esercito per tentare un golpe, riguarda il ministro della Giustizia ormai in punta di dimissioni Mohan Pieris. Accusato di aver tradito il suo mandato di super partes per essere stato presente alla riunione in cui Rajapaksa voleva ribaltare il risultato, chiede ora che lo si lasci uscire dal Paese. Ma con un'uscita onorevole. Un posto all'Onu, a Londra...o a Milano.

Il sipario strappato. Un manifesto elettorale di Rajapaksa
Intanto il nuovo governo di Maithripala Sirisena ha levato l'odiosa domanda di permesso necessaria per visitare i distretti del Nord a maggioranza tamil. Non è molto in realtà mentre molte sono le aspettative sui prossimi passi, il primo dei quali riguarda il 13mo emendamento della Costituzione che, secondo il parlamento, avrebbe il compito di garantire un decentramento dei poteri sinora rimasto sulla carta e minacciato dalla scure con cui Rajapaksa avrebbe voluto decapitarlo, sottraendo alle province poteri da delegare invece al ministero dello Sviluppo economico, retto dal fratello Basil.

venerdì 23 gennaio 2015

Non si uccidono così gli elefanti/2: cosa c'è nella tua teiera

Gli amici con cui viaggio mi hanno ieri redarguito dopo aver letto il post ispirato dalla “Building View” della nostra Guest House a Kandy. Mi han detto con son troppo severo nei miei giudizi su Sri Lanka, facendomi così riflettere sul fatto che persino una fotografia a colori ha una scala di grigi e che le sfumature della realtà sono così tante che i miei ingenerosi giudizi sembravano forse non tenerne conto. In realtà, forse per un difetto di scuola, i reporter tendono a portare in alto le cattive notizie e a ignorare quelle buone, in omaggio alla regoletta aurea che solo un uomo che morde un cane è una notizia e non viceversa. Ma devo ammettere che, da inveterato viaggiatore, questo problema del turismo e dei suoi effetti perversi mi affligge e mi ha sempre corroborato diversi dubbi: siamo i nuovi colonialisti retroguardie della penetrazione commerciale? Nuovi barbari convinti invece di fare del bene coi nostri dollaroni? Segmenti di diverse categorie più o meno consapevoli? Turisti o viaggiatori? Più attenti ai monumenti che alle storie, spesso tristi, di chi ci vive accanto? I dubbi non muoiono mai specie dopo aver visto ieri due italiani piuttosto anzianotti apostrofare con rabbioso sussiego una cameriera che tardava a portare il conto. Se fossero rimasti casa non avrebbero fatto un soldo di danno ma in compenso la cameriera non avrebbe forse il suo lavoro. C'è insomma e comunque un prezzo da pagare su un crinale fragile e controverso di cui restiamo più o meno volontari protagonisti.

Come che sia, la giornata di ieri mi ha in parte riconciliato con un'isola che resta comunque uno dei posti più belli al mondo e con gente simpatica quando si riesce a uscire un po' dal circo turistico. Dico in parte perché anche ieri siamo riusciti a farci fregare come allocchi proprio per aver dato retta a uno dei tanti imbonitori secondo il quale il tè che vendono al Museo di Kandy ci sarebbe costato tre volte tanto che al mercato. Costava invece la metà...


Il Museo del tè è una vecchia fabbrica ben tenuta e ben organizzata nella quale si vede l'intero procedimento del quale sir Lipton fu una delle icone ancor oggi visibile sulle bustine che in ogni albergo del mondo vi propinano a colazione. Si vede la parte nobile della produzione del tè: l'essiccazione, la fermentazione (la differenza tra tè nero e tè verde sta ad esempio proprio nella fermentazione che nel verde – che proviene dalla medesima pianta – non si fa), la spezzettatura delle foglie, la selezione etc. Purtroppo il Museo dice poco, anzi nulla, delle terribili condizioni di lavoro ancor oggi oggetto di battaglia tra tutele assai poco crescenti e uno sfruttamento visibile nelle facce delle raccoglitrici incontrate casualmente fuori dal museo. 

Come si nota in una delle incisioni a  lato, i poveri tamil importati da sua Maestà nell'Ottocento stavano sotto lo sguardo severo di un guardiano (bianco) dopo che, nel 1824, la prima pianticella – fatta giungere dalla Cina - era stata trapiantata al Royal Botanical Gardens, Peradeniya (5 km circa da Kandy e - sia detto tra noi - uno dei giardini botanici più belli e curati ch'io abbia mai visto e che merita da solo una visita a questa città). L'epopea delle piantagioni iniziò dopo il trapianto sperimentale di té proveniente dall'Assam e selezionato dalla potente East India Company.

L'epopea del tè srilankese comincia dunque proprio a Kandy nel 1867 e nel 1873 il primo carico arriva a Londra (Ceylon era nota per il caffè che però era stato debellato da un fungo e quindi sostituito dal tè). La manodopera di importazione era come abbiam detto tamil (Hill Country Tamils), reclutata negli anni venti dell'800 soprattutto in Tamil Nadu, in India, nell'ordine di decine di migliaia. Negli anni Sessanta un accordo tra Delhi e Colombo portò al rimpatrio di circa la metà di questi disperati che neppure avevano una cittadinanza. L'altra metà è ancora qui ma con nazionalità srilankese. Quanti erano? Non saprei con esattezza. Le statistiche dicono che nel 1911 c'erano in Sri lanka mezzo milione di tamil (Nord, Est e centro isola, la zona delle piantagioni di tè).

 Il Royal Botanical Gardens di Kandy
Nel 1971 erano 1.100mila circa e dieci anni dopo – a seguito del rimpatrio di una parte in India –  erano poco più che 800mila (le statistiche demografiche datano a Sri Lanka solo dal 1871). La storia dei tamil “importati” è diversa da quella dei cugini che da secoli vivevano nel Nord e britannici e singalesi fecero di tutto per mantenere divise le due comunità, imparentate dalle comune lingua e tradizione. Le cose non sono molto cambiate oggi e anzi Colobo temette che la guerra tamil nel Nord avrebbe potuto contagiare i paria del centro che passavano la loro vita in baracche da cui uscivano ed escono per andare a raccogliere le foglioline verdi con cui si prepara la nota bevanda.


La regina Vittoria
Oggi il té resta a Sri Lanka una produzione importante (ampiamente surclassata dal tessile) ma che conta solo per il 2% del Pnl con un giro d'affari attorno ai 700 milioni di dollari (esportazione principalmente nell'ex Urss e nel Golfo). Impiega però un milione di persone anche se sulle condizioni di lavoro è bene sorvolare. O almeno prendere in considerazione che nelle piantagioni lavorano anche minorenni in condizioni igienico sanitarie molto discutibili per non dire vicine alla semi schivitù: in stragrande maggioranza donne di tutte le età. L'angolo buio nella vostra pot tea.

giovedì 22 gennaio 2015

Non si uccidono così gli elefanti: come il turismo sta assassinando Sri Lanka

Avevo sentito dire e letto di Kandy ogni meraviglia. E anche ogni male, dal momento che la capitale delle Hills dello Sri Lanka, una delle zone a maggior densità di produzione di tè nel mondo, nasconde anche il tragico segreto delle condizioni di lavoro nelle piantagioni, che furono – obviously -un'idea degli inglesi. Che tra l'altro, per i loro noti calcoli politico economici, importarono un milione di tamil dall'India per farli lavorare nei campi dando una mano a creare uno dei maggiori problemi di questo Paese che risiede nella difficile convivenza tra singalesi (sinhala) e tamil. Ma sul fronte turistico la città appariva, nei racconti d'antan e nelle guide, come un piccolo paradiso tropicale dove rinfrancare lo spirito e rinfrescare il corpo (500 mt d'altezza).

Hermann Hesse
Lo spirito ahinoi ha poco da rinfrancarsi e questo già lo aveva scritto Hermann Hesse, cui di Kandy non era piaciuta quel che gli sembrava una pessima deriva del buddismo quivi praticato. Anche il nostro spirito è rimasto piuttosto rattristato: non solo dalle deviazioni attuali del buddismo (in parte violento identitario e nazionalista), che devono far rigirare il povero Hesse anche nella tomba, ma anche dal paesaggio, urbano e umano.

Il nostro alberghetto, pulito e senza troppe pretese, sta di fianco a uno dei suoi tanti gemelli – ve ne sono davvero a decine – che si chiama “Lake View”. Ma oggi, più che il lago vedete un monumento di cemento armato di otto piani in fase di costruzione. Potreste tentare di sbirciare verso la residenza del “sacro dente”, che apparteneva all'altrettanto sacra e venerata arcata mandibolare di Gautama Siddharta, ma l'occhio vi cade su un imponente albergo splendente di bianco nitore che sembra di una quindicina di piani. Scossi dal “Building View”, mentre siete assaliti dai dubbi per aver scelto questa meta e vi difendete da uno stuolo di assalitori che vi vogliono vendere un tour, consigliare un ristorante, farvi risparmiare sull'acquisto delle banane, vi vien fatto di pensare se anche questa città – con un vecchio centro storico affacciato su un lago suggestivo – non sia l'ennesima vittima del turismo. Al cui omicidio state contribuendo anche voi.

Sceso dal Nord, quasi privo di occhi esterni (un po' per via di trent'anni di guerra un po' perché il turismo non è molto incoraggiato e le strutture ricettive scarseggiano), il primo impatto vero col turismo è stata per me la città di Arunadhapura, l'antica capitale dello Sri Lanka che annovera rovine suggestive di un'ampiezza imponente e stupa assai ben conservati che risalgono al secondo o terzo secolo A.C. La città è quel che è – una lunga caotica fila di negozi immersa in un traffico abbastanza caotico – ma le rovine sono davvero uno spettacolo (ben conservato) che merita un viaggio. Il contorno però è sfiancante. Siete l'oggetto di un furto continuato: inizia il tuk tuk (i Bajaj a tre ruote che fungono da taxi economici) che non vi porta nel posto richiesto, continua con l'albergatore con cui dovete fare un'estenuante trattativa sul prezzo della camera, finisce con l'offerta-truffa di bypassare l'acquisto del carnet d'ingresso alla zona archeologica pagando un po' meno di metà prezzo (ma in realtà vi mostrerebbero quasi solamente la parte che si può comunque visitare gratuitamente). La cosa migliore è procurarsi una bicicletta e auto organizzarsi. Con l'aiuto della Lonely Planet? Si certo, ma tenendo conto che nemmeno questa guida è più quella di una volta e si è molto standardizzata. Alcune di questa piacevolezze non ve le racconta.

Nonostante Colombo sia una bella e ordinata città che merita una visita (contrariamente
Kandy: da Lake View a Building View
al mantra sul suo traffico disordinato e caotico) e nonostante la bella passeggiata nel Nord (di cui mi riprometto di riferire in seguito), la perla dell'Oceano indiano è un'esperienza a volte persino deprimente. Credo che ciò imponga una riflessione sul turismo, anche sul cosiddetto turismo sostenibile o responsabile: riflessione ineludibile perché ne siamo i protagonisti principali. Se lo Sri Lanka (che durante gli anni della guerra ha già fatto i conti con la caduta delle presenze) non fosse più la meta che è, il suo Pil ne soffrirebbe parecchio. I turisti – quella massa un po' grigia e malvestita in short, scarpe da tennis col calzino sporco, t-shirt e zaino in spalla – sono una manna che garantisce ingresso di divisa forte, occupazione e... sviluppo. Ma è sullo sviluppo che grava l'interrogativo (sui primi due punti siam tutti d'accordo).

Arunadhapura: area archeologica estesa
e molto ben conservata
Se lo sviluppo è la vista sul grattacielo anziché sul sacro dente, se una passeggiata vi costringe a fuggire venditori e guide variamente dissimulate, se il vostro rapporto con la gente è diventato ormai una relazione semplicemente commerciale, al massimo si sviluppa una grande distanza tra visitatori e visitati. Certo direte voi, lo sviluppo è per gli srilankesi, e questo è il prezzo da pagare. Ma io temo due cose: la prima è che la vista sul grattacielo rimarrà agli srilankesi che si godranno gli effetti perversi generati dal flusso turistico. Secondo, Sri lanka corre il rischio di fare la fine dell'Italia, un Paese che negli anni Sessanta-Settanta era nei primi posti delle classifiche e cui adesso viene preferita persino la Germania (siamo esosi, imbroglioni e maestri nella rovina del paesaggio). La soluzione non è certo il solo turismo d'élite che, anzi, quello del viaggiatore a low budget è senz'altro meno impattante e diffonde ricchezza in modo più egualitario (a parte l'enorme quantità di lavoro minorile). Ma c'è qualcosa che non va e che lascia l'amaro in bocca. Un po' come il tè e le sigarette.

Le seconde costano come uno stipendio (circa 4 euro al pacchetto), sono rigidamente contingentate (un problema trovarle) e sono solo di un paio di marche. Ma questo – direte voi – riguarda solo gli orridi viziosi con la cicca in bocca, politicamente e salutisticamente scorretti. Allora veniamo al tè. Nel Paese dove si produce uno dei tè migliori del mondo (lasciamo stare in che modo), è quasi impossibile bere un tè decente. La media è a livello di quello che vi propinano nei bar italiani. Tutto se ne va in esportazione e il fondo del sacco resta qui. Oggi andremo a vedere il Museo del tè di Kandy per vedere se ne rimediamo una bustina.