l'evanescente mullah Omar alla guida dei Talebani è stato ucciso sabato pomeriggio da un drone americano, mentre era in viaggio nel Belucistan pachistano. I Talebani non hanno confermato ufficialmente la notizia, ma i più alti membri dell'amministrazione Usa e i funzionari dell'intelligence afghana si dicono certi: Mansur è stato ucciso. «Perché era l'ostacolo maggiore al processo di pace», ha dichiarato dal Myanmar il segretario di Stato Usa John Kerry, convinto che con l'uscita di scena del loro leader i Talebani siano disposti a sedersi al tavolo negoziale.
Ashraf Ghani. La svolta dopo l'ennesimo attentato |
La regione beluci in Pakistan. Mansur veniva dall'Iran? |
Ma che partita si gioca dietro la presunta morte del capo talebano? Tutti guardano a Islamabad che ha condannato la violazione del suo spazio areo in Belucistan, una linea rossa oltrepassata solo in rarissimi casi dai droni statunitensi che concentrano la loro azione nelle aree tribali del Pakistan occidentale. Islamabad protesta sempre ma questa volta tutto fa supporre che non si tratti di uno sdegno di maniera. L’uomo al centro del caso è un mullah da sempre indicato come vicino al Pakistan e dunque il cavallo buono per poter controllare un possibile processo negoziale. Ora si dice, dal Pentagono alla Nato, che Mansur era invece l’impedimento principale e che dunque andava eliminato: una svolta iniziata forse nell’aprile scorso quando, dopo l’ennesima strage talebana a Kabul, il presidente afghano Ghani ha cambiato idea sul negoziato e deciso per una stretta senza esclusione di colpi contro il movimento diretto da Mansur che alla pace preferisce gli attentati. In realtà per Mansur decidere il passo negoziale, di cui qualche segnale seppur debole si è visto, richiedeva la necessità di avere alle spalle un movimento compatto diretto da una leadership forte e indiscussa. E non era questo il caso: Mansur era contestato da diverse fazioni e in rotta con elementi chiave del movimento. Sapeva che la sua leadership era tanto fragile quanto poco compatto è il movimento dei turbanti neri. La presa di Kunduz, nell’ottobre del 2015, fu la sua prima prova di forza, la necessità di dimostrare che non era da meno di mullah Omar. E del resto, se Mansur faceva la faccia dura, i suoi nemici – gli invasori americani – non son certo stati da meno: a Kunduz andando a caccia di guerriglieri colpirono un ospedale e in questi mesi – dietro la richiesta del negoziato – gli americani non hanno mai smesso i loro raid segreti sia in Afghanistan, sia in Pakistan. Attività che non conosciamo e che gli stessi afgani e pachistani vedono soltanto ex post quando a chiedere vendetta sono i parenti dei civili uccisi. Ora un raid colpisce e punisce il numero uno della guerriglia, forse l’uomo su cui Islamabad contava e forse persino il più acerrimo nemico di Daesh, vissuto da Mansur come l’ennesima minaccia alla compattezza del movimento. Missione compiuta dunque? Si, ma non certo a favore di un processo negoziale che non è affatto detto possa ripartire dopo la morte del leader talebano.
a due mani con Giuliano Battiston per il manifesto oggi in edicola
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