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venerdì 22 luglio 2016

Turchia, la lezione di Giacarta

Durante il colpo di stato in Cile contro Allende sui muri di Santiago appariva la scritta "Jakarta": un modello! Anche la vicenda turca sembra ricordare - assai più che in Cile - quanto avvenne in Indonesia nel 1965. Un “controgolpe” minuziosamente preparato su cui oggi un tribunale internazionale popolare chiede agli indonesiani di riaprire il caso e perseguire i colpevoli. Invano per ora


Nei tanti misteri che circondano il colpo di stato fallito in Turchia, l’ipotesi complottista (Erdogan ha architettato il golpe) non sembra per ora aver gambe sufficienti. Certo l’impreparazione dei golpisti, l’esiguità del loro numero, la mancanza di veri leader tra gli stessi militari lasciano perplessi. Così come la campagna scatenata contro Fethullah Gülen, un tempo mentore di Erdogan e ora ritenuto addirittura, ma senza prove, la mente del pronunciamento militare. Le modalità della reazione e la rapidità nell’esecuzione delle epurazioni fa semmai pensare a qualcosa che accadde in Indonesia oltre cinquant’anni fa: il colpo di stato con cui il generale Suharto mise fine all’esperimento nazionalpopulista e venato di socialismo di Sukarno, uno dei leader dell’indipendenza del Paese dall’Olanda. Viene da pensarlo nel giorno in cui il governo indonesiano, per bocca del ministro per la sicurezza Luhut Panjaitan, ha bocciato il risultato di un tribunale popolare internazionale - formato da giuristi che hanno consultato documenti e ascoltato testimonianze - che all’Aja due giorni fa ha rilasciato la sua sentenza. Con cui chiede al governo di procedere a identificare chi si macchiò di crimini contro l’umanità nel periodo 1965-66 quando almeno 400mila persone furono massacrate dopo il golpe di Suharto. Panjaitan ha detto chiaramente che l’Indonesia ha il suo sistema di giustizia e che non è affare di altri indagare sui fatti di casa. Il portavoce del ministero degli Esteri ha infine chiarito che l'Indonesia non si sente obbligata a seguire le indicazioni di un tribunale che non ha basi legali. L’argomento è infatti tabù anche se recentemente il neo presidente Joko Widodo aveva mostrato segni di apertura salvo poi fare marcia indietro quando lo Stato avrebbe dovuto fare pubblica ammenda. Cosa accadde allora e cosa se ne può trarre oggi a proposito della vicenda turca?

Alle prime ore del 1 ottobre del 1965, il Gerakan 30 September, un movimento di militari progressisti che aveva contatti col Partito comunista locale, tentò un golpe che fallì nell’arco stesso della giornata. La vicenda era cominciata con il sequestro di alcuni generali, poi trovati morti, e col dispiegamento di alcuni soldati al comando del colonnello Untung Syamsuri, la mente del golpe. La reazione della parte dell’esercito che faceva capo a un gruppo di generali riuniti nel Dewan Jendral e che aveva in odio Sukarno, fu rapida e feroce. A comandarla c’era il giovane generale Suharto che “prese in custodia” Sukarno e fece abortire il golpe. Si disse che Untung, temendo una mossa della destra militare, avesse anticipato i tempi ma forse la dinamica fu diversa. Suharto probabilmente sapeva cosa Untung stava preparando e gli lasciò sequestrare i generali, occupare la Radio e tentare un’occupazione della capitale che durò poche ore. Qualche sacca di resistenza resistette in periferia ma in breve venne repressa. Il dispositivo di reazione era pronto al punto tale che di Untung non si ricorda più nessuno. Fu solo la scintilla che doveva dare il pretesto a Suharto per deporre, come fece, lo scomodo Sukarno. Il Pki, il Partito comunista indonesiano, fu accusato di essere dietro al golpe (cosa di cui non c’era prova) e si scatenò una repressione feroce: 400mila morti è probabilmente un numero per difetto. Case e villaggi vennero bruciati, la gente uccisa senza processo, centinaia furono trasferiti in campi di prigionia. E l’Occidente chiuse un occhio, anzi entrambi, su un “controgolpe” che fu seguito e aiutato dai servizi segreti amici del nuovo corso – Orde Baru, Ordine nuovo – che durò poi fino a che nel 1998 il dittatore non fu costretto - sempre dai militari – a ritirarsi.

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