Mi è piaciuto l’articolo di Emanuele Giordana sul numero di giovedi 2 agosto. Ma sulla Martesana definita “fiumiciattolo maleodorante” non sono assolutamente d’accordo. Verde rigoglioso, canne, acqua abbastanza limpida con pesci e ricca vegetazione sommersa, gracidar di rane, gallinelle d’acqua, germani reali... questa è la Martesana, un pezzetto di natura quasi selvatica nei tristi quartieri Nord di Milano. Claudio Longo, 8/8/07 (lettera inviata al manifesto )
Poi, nell'estate 2013, decisi che quell'articolo poteva partorire una piccola serie rievocativa e proposi al giornale dieci puntate. Anche questa volta ci furono un mucchio di reazioni miste. Alcune davvero confortanti. Perché allora non farne un libro? Ripresi alcuni dei pezzi scritti per il Mani e gli feci acquistare dignità di capitolo ma faticavo a trovare un editore. Poi Laterza si è convinto, grazie anche al sostegno di Giovanni Carletti, la persona che poi ha seguito impianto, nuovo indice e nuova stesura. Se siete arrivati fin qui ecco allora il prologo del libro. Sperando ovviamente che poi corriate in libreria...Ce n'è giusto una all'angolo.
L'indice lo trovate qui
Tryin'
to make a livin' and doin' the best I can.
And
when it's time for leavin',
I
hope you'll understand,
That
I was born a ramblin' man
(The
Allman Brothers Band,
Ramblin'
Man,
Brothers and Sisters, 1973)
Prologo
Quarant'anni
prima
Per
noi che sognavamo di prendere il Direct Orient dalla Centrale di
Milano, l'ultimo ritrovo prima di partire in quelle estati un po'
torride e di spasmodica attesa per il grande viaggio era una
bocciofila sulla Martesana, fiumiciattolo maleodorante non lontano
dalla stazione, dove pensionati comunisti e giovani fricchettoni
pasteggiavano con ossobuco e barbera dell’Oltrepo per 500 lire. A
qualche centinaio di metri, gli effluvi della cannabis condivano le
serate all'Abanella, un cinema di terza visione – quando le sale,
come i treni, avevano una gerarchia di classe - rilevato da un amante
del genere sex, drug & rock'n roll e dove, oltre a Il
laureato
e Woodstock,
si proiettava anche Cavalieri
selvaggi
con Omar Sharif e Jack Palance. Quel grande film sull'Afghanistan di
John Michael Frankenheimer, che i critici cinematografici avevano
snobbato, alimentava l'epopea del Viaggio
all'Eden,
come era stata chiamata la prima guida per freak
sulla via che da Istanbul portava a Kathmandu. E non c'era molto
altro come viatico letterario.
Sì, anche Allen Ginsberg, allora molto gettonato, era stato in India ma alla fine ci passavamo di mano soprattutto un altro classico dell'epoca, pura operazione furbescamente commerciale ma non priva di seduzione: quel raccontone letterariamente scadente ma altrettanto avvincente di Charles Duchaussois, junkie francese che aveva fatto il giro del mondo con un ago infilato nel braccio. Il suo Flash. Katmandu il grande viaggio descriveva l'Old Gulhane di Istanbul e raccontava di sordidi buchi del bazar di Bombay per fumatori d'oppio, di santoni, contrabbandieri, guru e ashram dove poter allargare la coscienza a colpi di mantra e di “manali”, l'hascisc nero e profumato delle valli del Nord dell'India. Insomma la partenza si preparava così: amuchina e antibiotici per i più paranoici, pile e lamette da barba per i previdenti, Sulla strada di Kerouac o Siddharta di Hesse per i più raffinati, Autobiografia di uno yogi di Paramhansa Yogananda per gli spiritualisti. Inseguiti dagli anatemi di quelli che «no compagni, non si può andar via e mollare la lotta di classe», ci rodeva – sotto la pergola della Bocciofila Martesana - il tarlo della strada e non ci scalfiva quel refrain di Giorgio Gaber che cantava di una generazione che scappava «in India e in Turchia» fingendo di essere sana. Eravamo malati, come no. Bruciati dalla passione per quel treno che partiva dalla Stazione Centrale e proveniva da Parigi diretto a Istanbul, dove immigrati turchi accaldati di ritorno a casa esibivano i gilet e le coppole d'ordinanza mentre si attraversava la Iugoslavia di Tito fino alla Porta d'Oro aperta sull'Oriente.
La copertina di "Viaggio all'Eden", la prima mitica guida al volo magico (altro titolo dell'epoca) |
L'Iran,
ancora terra dello Scià, era un passaggio veloce. Una notte all'Amir
Kabir per i più fortunati e sennò il campeggio di Mashhad prima del
confine afgano. Ed era qualche chilometro più a Est, alla frontiera
di Tayyebad, il vero inizio del viaggio. Era a Kabul, la città di
cui avevamo distillato ogni sapore nei racconti degli amici, il luogo
dove esplodeva l'epopea dei ruggenti Settanta on
the road.
I freak erano così numerosi che si era creata una vera e propria
colonia il cui santuario era Chicken Street, che è oggi l'ombra di
se stessa ancorché, per qualche anno, la municipalità cittadina
l'avesse onorata dell'unica insegna turistica che ho visto in quella
città sulla linea del fronte che la guerra ha inghiottito da
decenni. Quelli con più soldi stavano al Peace
e lo chiamavi così perché se dicevi “Peace Hotel” voleva dire
che eri un novellino. La giornata rituale comprendeva la pipa ad
acqua, un giro alla Posta, la pipa ad acqua, una visitina alla
moschea, la pipa ad acqua e il ristorante. Se avevi soldi ci scappava
anche una seduta al Marco Polo, locale di lusso dove la cucina
serviva il solito kabili
palau
(che solo anni dopo capimmo che non significa riso
di Kabul),
ma anche un vino d'uva che forse non era granché ma poteva farti
evocare le colline dell'astigiano o i poemi del persiano Omar Kayyam.
Anche gli afgani, che sono di lingua iranica, conoscono bene la sua
poesia mentre noi, lo ammetto, cercavamo il sapore di casa in quel
liquido senza retrogusto e tratto da un frutto ottimo per l'uva
sultanina ma difficile – a quelle latitudini – da vinificare (pur
se la tradizione della vigna e del vino erano antichissime). Nel
percorso verso la Posta, il luogo sacro per un vero viaggiatore prima
dell'avvento degli Internetcafé, del roaming o di WhatsApp (ricevevi
la corrispondenza al Poste Restante che sarebbe il P.O. Box inglese e
il nostro Fermo Posta ma che ovunque si declinava in francese), c'era
la possibilità di un frullato di mele o di carote, unica chance
vitaminica in un Paese dominato da riso e montone e dove pomodori e
insalata erano a tuo rischio e pericolo. Meloni quelli sì, quelli di
Kunduz, dolci e bianchi, promessa di frescura nelle estati torride e
polverose della capitale afgana. Eppoi, già, la pipa ad acqua, un
marchingenio per proiettare la sintesi estrema dell'hascisc più
rinomato del pianeta direttamente nel cervello se a farti “sballare”
non aveva già provveduto quel paesaggio di fieri cavalieri avvolti –
estate e inverno – in una leggerissima coperta di lana – il patu
- sotto un turbante da cui parte una striscia di cotone svolazzante
come una cometa di luce che ha anche il pregio di riparare la gola
dalla polvere.
Sul
passo Kyber avevi giusto il tempo di ragionare del fatto che tra
l'Afghanistan e il Pakistan esisteva una sorta di terra di nessuno
dove comandavano pastori barbuti col fucile in spalla e un
cappelletto di lana rotondo che avremmo rivisto anni dopo sulla testa
dei mujahedin. Riallacciando le immagini di quei viaggi al senno di
poi, abbiamo capito in seguito cosa fossero e sono le aree tribali
pachistane e perché i guerrieri di Allah – ieri come oggi -
sparavano a Jalalabad ma dormivano a Peshawar e perché anche adesso
quella frontiera porosa è attraversata senza passaporto dai pashtun
– talebani e non - che oltre confine si chiamano pathan. A
Peshawar, che era ancora un paesone marcato dall'urbanistica del
Cantonment britannico – il cuore militar coloniale disegnato dagli
architetti di Sua Maestà – e non la città disordinata e molto
pashtun-patana di adesso, c'era il primo impatto con la geografia
umana del subcontinente indiano perché, e lo capivi dopo, la
spartizione dell'India del 1947 aveva diviso a metà la regione del
Punjab e dunque, di qua e di là della frontiera indo-pachistana, la
gente era più o meno la medesima. Comprese le mucche che pascolavano
tra gli scoli dei bazar anche nell'islamico Pakistan, salvo che qui
finivano in stufato, di là al tempio. A Peshawar potevi stare in un
alberghetto famoso perché affacciato sull'acquitrino formato dai
residui del cambio dell'olio di un'enorme officina meccanica per
camion dipinti con colori sgargianti. Quel rumore assordante già
alle prime luci del giorno era capace di spezzare ogni poesia ma non
certo la litania imprecante di ogni meccanico che si rispetti quando
una vite non gira. E c'era anche un antico e fatiscente palazzo
moghul dove ai prezzi delle stanze corrispondeva anche l'ubicazione
in elevazione della stanza. Ma al contrario: pagavi bene e stavi al
primo piano, ombreggiato e ventilato. Meno rupie e salivi a quello
superiore. E, infine, se quattrini non ne avevi proprio, passavi la
giornata su un terrazzo liquefatto, in stanzette che erano
bugigattoli in lamiera caldi come forni. Erano per lo più abitati da
junkie all'ultimo stadio, dimenticati dalle ambasciate e inseguiti
senza fortuna dai parenti, per i quali il futuro più prossimo era
una sostanza grigiastra derivata dallo sbriciolamento di pastiglie di
morfina della Merck, fabbrica tedesca di stupefacenti legali venduti
spesso illegalmente. La vulgata raccontava che Peshawar fosse
diventata, vai a sapere come, il deposito di infinite scorte di
morfina a far data della seconda Guerra mondiale. Costavan nulla e
quei ragazzi finivano il loro viaggio esotico cercandosi le vene nel
caldo poco mansueto della terrazza del National. Che ne ricordava
un'altra, qualche mille chilometri più a Est: quella del Crown
Hotel.
Alla
fine di Chandni Chowk, nella vecchia Delhi, il Crown aveva la stessa
struttura verticale del National. E la stessa fauna. Viaggiatori
scandinavi dalle gote rosse e i capelli biondo quasi bianco, junkie
francesi che imitavano Duchaussois, sfilacciati britannici dall'aria
spiritata che ti raccontavano di questo o quel guru, spacciatori
napoletani col passaporto contraffatto, signorini milanesi con kurta
e pijama
(mediati dal costume locale) su cui, col calar dei primi freddi,
esibivano maglioncini di cachemire (Made in England però, anche se
la lana veniva dall'India). Nuova Delhi, come tutte le città meta di
viaggiatori, aveva le sue gerarchie anche nella colonia dei
viaggiatori dell'Eden e non era solo una questione di prezzo. Ancora
qualche anno fa, dal mio alberghetto di Parganji mi sono avventurato
per Chandni Chowk: è lontana dalla luccicante Connaught Place ed è
maledettamente sporca come deve essere sempre stata. Ma camminare
lungo quella strada, dal Forte Rosso sino alla moschea di Fatehpuri,
era ed è un viaggio attraverso tutto l'immaginario indiano:
ciabattini musulmani, mendicanti indù, un tempio sikh davanti a un
grande fallo shivaita, ricche signore del centro con sari dorati in
cerca di braccialetti di vetro, grassi punjabi con capelli unti di
gel scarrozzati da paria ansimanti su risciò laccati di rosso,
austeri santoni seminudi, vacche sacre accompagnate da topi forse
meno nobili ma non meno a loro agio. Adesso, ovviamente, son spuntati
anche negozi di high tech ben ingrassati dall'olio di friggitorie di
finissimi puri
o
di polpette di patate.
E' una magia, se vi piace, che nemmeno la Shining
India
del miracolo economico è riuscita a intaccare.
Ma
l'appuntamento vero era a Kathmandu dove la colonizzazione hippy
aveva ribattezzato una strada Freak Street, che ancora c'è. Oggi
però è un buon posto per contattare e intervistare giovani maoisti
ormai integrati nel primo Paese al mondo, dopo la Cina, dove un
partito ispiratosi a Mao ha messo mano alla Costituzione. Allora era
il ritrovo di giovani maoisti occidentali disintegrati che invece che
nella Repubblica popolare cinese erano approdati nel regno dei
sovrani Gyanendra del Nepal, conservatori e latifondisti. Lì finiva
la grande epopea che si risolveva in un biglietto dell'Air India
prepagato da casa. O in un ritorno con epatite, pidocchi e un corpo
spaventosamente smagrito a dispetto di un'overdose di sensazioni che
ti riempivano l'anima appena raffreddata dal gelo che intanto era
sceso su Kabul, in Anatolia o lungo l'Autostrada
degli studenti
costruita da Tito. E' che poi quel grande calore dell'anima andava di
nuovo riscaldato. Alla Martesana e all'Abanella, sognando il prossimo
viaggio. Chi non era ancora partito, abbeverandosi ai racconti che si
facevano sogno e desiderio, risparmiava sull'aperitivo per comprare
la prima tratta del viaggio all'Eden sino a Istanbul. L'estate
prossima. Forse...
Quarant'anni
dopo
Cosa
ci muovesse allora alla volta dell’Eden non saprei dire: una specie
di febbre il cui batterio originario veniva – covato sottopelle
dall’epopea dei grandi viaggiatori – forse da lontano o era
magari appena nato, si sarebbe detto allora, con i pidocchi che
allignavano nelle nostre folte capigliature. Quella febbre era il
sintomo di una malattia che attraversava tutta l’Europa e l’intero
mondo occidentale che, dagli anni Sessanta in avanti, aveva
cominciato a fremere, scalpitare, ribellarsi. E se ci sembrava giusto
ribellarsi (Ribellarsi
è giusto!
Aveva scritto il presidente Mao nel suo Libretto rosso) ci sembrava
anche giusto liberarci di tutti quegli orpelli (li chiamavamo allora
marxianamente “sovrastrutture”) che potevano fermare il nostro
desiderio rivoluzionario di cambiare il mondo: famiglia, matrimonio,
fabbrica e sacrestia. Era il 1968 quando mi affacciai, forse ancora
coi pantaloni corti, alla prima classe del ginnasio del Liceo
Carducci di Milano. Ero un po’ tonto e ancora imbesuito dalle
tradizioni della borghesia illuminata lombarda cui la mia famiglia
apparteneva: le prime ragazze le avevo conosciute alle “lezioni di
ballo”, appuntamenti che al sabato, sotto l’occhio vigile di
mamme, sorelle e fratelli maggiori, consentivano il contatto furtivo
con l’altra metà del cielo con avvicinamenti fisici impacciati e
con debita distanza. Il resto era studiare e aspettare le vacanze
oppure passeggiare per i negozi del centro aspirando a quel paio di
mocassini o a quell’impermeabile. Il ‘68, esploso in tutta la sua
potenza negli anni Settanta, fu uno schiaffo, salutare e poderoso,
che mi spalancò, oltre all’universo della politica, tutto ciò che
una famiglia protettiva ancorché progressista non avrebbe potuto
rivelarmi né tanto meno consentirmi. Smisi di studiare, cominciai a
guardare le ragazze con meno timore, iniziai a leggere i classici del
marxismo e a “bigiare” le ore di lezione per andare al bar di
fronte o al parco Lambro a parlare di politica. Ma la politica non
era abbastanza. La liberazione che prometteva era la liberazione
dalle catene della schiavitù operaia di cui noi avevamo solo la
percezione. Nei primi anni Settanta però arrivavano anche altre
suggestioni: le rivolte americane, i figli dei fiori, i provos
olandesi, gli hippy e, naturalmente, le droghe i cui santoni
spiegavano come fossero una via per allargare la coscienza, per
guardarsi dentro: per liberare il mondo non solo dalle catene della
fabbrica ma da quelle che ci imprigionano nella vita quotidiana.
Perché ognuno potesse guardarsi dentro e, finalmente, liberarsi dal
proprio ego. Contemporaneamente si faceva strada la grande
suggestione delle filosofie indiane, cammini di liberazione che
richiedevano un viaggio a Oriente. Il mio, il nostro Viaggio
all’Eden, fu forse figlio di tutto ciò. Andiamo.
Decine
di estati dopo è stato il mio lavoro a riportarmi su quella rotta. E
la guerra è stata quasi sempre il motivo di frettolose partenze e di
nuove meraviglie in un paesaggio Umano e geografico a volte rimasto
immutato, altre completamente cambiato quando non stravolto o
scomparso. Per ritrovare la strada, il filo che legasse i percorsi
di allora a quelli attuali, ho messo dunque assieme gli appunti
della mia memoria - e la fascinazione un po' orientalistica e ingenua
che avevamo allora - con gli obblighi del resoconto giornalistico che
non dovrebbe cedere né a fascinazioni né a ingenuità. Mi sono
aiutato con gli articoli scritti in questi anni ma soprattutto con un
meticoloso libretto di viaggio - resuscitatosi un giorno per magia da
un vecchio baule - in cui avevo annotato nomi, indirizzi, orari degli
autobus e prezzi. Ne vien fuori un viaggio all'Eden contaminato dai
ricordi di allora e dalla rivisitazione odierna cui ho aggiunto le
code che portavano su altre rotte: Sri Lanka, l’Indonesia, quella
che chiamavamo Indocina. A Occidente, il Marocco. E ancora più a
Occidente (o più a Oriente se è vero che la geografia è solo un
punto di vista) nelle Americhe. In alcuni di questi luoghi son stato
da ventenne e da ultracinquantenne. In alcuni invece non ero mai
stato. In altri ancora non sono più tornato. In altri, devo ancora
andarci….
A
differenza del mio primo Viaggio all’Eden, quelli che ne son
seguiti, un po’ perché avevo cambiato città un po’ perché il
mio lavoro mi aveva sprovincializzato, ho perso quel tratto di
milanesità (ben raccontata nel documentario di Felice Pesoli Prima
che la vita cambi noi)
che forse il lettore di Bologna, di Enna o di Fermo troverà persino
insopportabile. I milanesi avevano – e ancora hanno – alcuni
tratti adorabili, altri insopportabili un po’ come tutti gli altri
italiani per altro, figli orgogliosi delle loro tradizioni comunali
che sono il tratto meraviglioso (se uno pensa alla cucina) e al
contempo spaventoso (se uno pensa ai razzisti di casa) del nostro
Paese. I milanesi sono gran gente (Milan
l’è un gran Milan)
ma vi guardano sempre il colletto della camicia e se le scarpe son
lucide e di marca. Vicino alla città italiana europea per
eccellenza, nella capitale morale - dove si sa rubare con maggior
maestria che altrove – son tornato oltre quarant’anni dopo per
approdare nella mia vecchia casa a Crema che si chiama Ca’ delle
mosche, anche se persino le mosche son state uccise da eccesso di
diserbanti. A Milano vado raramente e in effetti è il distacco della
campagna che mi ha permesso di rimettere ordine nei miei ricordi e di
farne un viaggio a ritroso, sospeso tra presente e passato,
consapevolezza e incoscienza, stupore e curiosità, una qualità –
o un difetto - che non ho perso.
Questi
racconti – che in forma assai più ridotta e a puntate sono in
parte usciti sul quotidiano il
manifesto
- sono un omaggio a tutti quelli che fecero quel viaggio, a quanti si
limitarono a sognarlo, a chi non lo fece mai e a chi oggi ancora
percorre quelle rotte. In altro modo, con altri mezzi. Si dice del
resto che il Viaggio all’Eden degli anni Settanta non fosse che il
viaggio a ritroso che gli australiani facevano dall’Oceania
all’Europa in cerca delle proprie antiche radici. Noi lo facevamo
cercando chissà cosa e sapendo, come hanno detto persino gli 883,
che la meta di un viaggio è in realtà il viaggio in sé.
Le foto in questa pagina sono di Guido Corradi |
Vorrei
dedicare queste pagine anche al padrone di una piccola residenza di
Kabul – l'Ahmadshai Hotel di Sharenaw – dove ho passato un mese
di passione e di fasto con alcuni amici nel 1974. L’ho invano
cercato nei miei tanti viaggi nell'Afghanistan stravolto dai
talebani, dai mujahedin, dalla Nato, dalle nuove colonie occidentali
che i capelli non li portano più a coda ma ben rasati sull'orlo di
candidi colletti. Si chiamava Ali e aveva allora vent'anni o giù di
lui. Mi spiegò che noi eravamo gli araldi di una «plastic
life»,
destinata a favorire una sana contaminazione tra genti diverse. Non
so se avesse ragione ma era una bella idea.
Io
poi son tornato a casa. Lui, quarant'anni dopo, non so che fine abbia
fatto. Che Allah il misericordioso si prenda cura di lui.
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