La
guerra in sordina dell’Afghanistan, un conflitto che ogni anno
reclama un sempre maggior numero di vittime, è tornata
improvvisamente sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
L’esposizione mediatica è dovuta soprattutto a due attentati che,
in rapida sequenza, hanno colpito la capitale e che portano la firma
dei talebani, il movimento guerrigliero fondato da mullah Omar e oggi
guidato da mullah Akhundzada. Il primo ha colpito il 20 gennaio
l’hotel Intercontinental, un vasto edificio razionalista da sempre
residenza di corrispondenti esteri e uomini d’affari che si trova
su una collina alla periferia della città. L’assedio al commando
asserragliato nell’edifico, durato quasi un’intera giornata, si è
concluso con un bilancio di almeno 25 vittime, tra cui molti
stranieri. Una settimana dopo, i talebani hanno colpito nel mucchio
con una strage nel cuore della capitale: un’auto bomba – nascosta
dalle insegne di un’ambulanza – è saltata in aria col suo
conducente in un’area dove si affacciano gli uffici dell’Unione
europea, alcune sezioni del ministero dell’Interno e, poco più in
là, il quartier generale della polizia. La zona, sempre molto
trafficata e non lontana dal municipio e dal gran bazar di Kabul, è
frequentata da funzionari e poliziotti ma soprattutto da cittadini
ordinari. Il bilancio ha superato i cento morti, in uno degli
attentati più sanguinari della storia della capitale. A rendere
ancora più tragica la sequenza di attentati talebani, è stato –
qualche giorno dopo – la strage di oltre una decina di soldati
sempre a Kabul e – alcuni giorni prima - l’assalto alla sede di
una Ong internazionale a Jalalabad, nell’oriente afgano a ridosso
del Khyber Pass. I terroristi hanno firmato i due massacri con la
sigla dello Stato islamico: prendendo in ostaggio la sede di Save
the Children e uccidendo membri del personale locale e dello staff
internazionale di un organismo per la protezione dell’infanzia,
gli emuli di Al-Bagdadi si sono assicurati la pubblicità che
consente loro di dimostrare di essere sopravvissuti alle macerie di
Raqqa…
Due
scuole di pensiero
Se
gli attentati stragisti con vittime civili sono all’ordine del
giorno per gli uomini del califfato – che colpiscono senza problemi
nelle strade e nelle moschee - i talebani sembrano aver deragliato da
una strategia che coltiva quasi esclusivamente obiettivi militari e
dove le vittime civili sono “effetti collaterali”, raramente se
non mai obiettivo diretto. Le analisi su questo nuovo “surge”
talebano, caratterizzato da azioni dove sono inevitabili le vittime
civili, hanno riempito giornali e televisioni, afgane e
internazionali. Con due interpretazioni dominanti. La più diffusa
riguarda il Pakistan, che la recente messa in mora del presidente
americano Trump avrebbe innervosito. Trump ha accusato Islamabad non
solo di fare il doppio gioco, sostenendo che anziché combattere il
terrore in realtà foraggia e ospita i talebani afgani, ma ha
tacciato i pachistani di essere solo dei bugiardi che meritano una
lezione. Lezione equivalente al taglio dei fondi militari già decisi
dal Congresso: un congelamento di circa 1,3 miliardi di dollari per
l’anno in corso. Il Pakistan ha reagito male ma non così
duramente- almeno ufficialmente - come ci si aspettava. Ecco
allora, sostengono diversi analisti, che Islamabad avrebbe risposto
indirettamente, spingendo i talebani a colpire più duramente del
solito. Un messaggio che significherebbe in sostanza una sola cosa:
che senza l’aiuto di Islamabad la pace in Afghanistan è una
“missione impossibile” Altri analisti propendono invece per
un’altra interpretazione, ben riassunta il 28 gennaio in un
articolo sul New York Times di Max Fisher (Why
Attack Afghan Civilians? Creating Chaos Rewards Taliban).
Anche se il Pakistan gioca sempre un ruolo importante nella guerra
afgana, il surge talebano sarebbe piuttosto da mettere in relazione
con la necessità del movimento di reagire alla nuova escalation
nella guerra afgana che Trump ha promesso l’anno scorso e iniziata
con un aumento delle forze americane nel teatro da da 11 a 15mila
unità.
Quanto
conta il Pakistan?
Aggiungi didascalia |
Questa
seconda lettura della nuova stagione stragista talebana appare più
convincente. La nuova strategia enucleata nel 2017 da Trump prevede
infatti più uomini e un maggior impiego della forza aerea,
tradottosi in un aumento dei raid aerei (tre volte in più che negli
anni precedenti). Il presidente inoltre, ha dato luce verde alla Cia
per raid mirati e selettivi anche in Afghanistan mentre, con Obama,
l’intelligence poteva farli solo in Pakistan. Secondo gli uomini
del presidente (al netto di chi, come l’ex consigliere Steve Bannon
erano contrari a questa nuova strategia), i talebani afgani e i
leader pachistani, messi alle strette dalle bombe gli uni e dal
taglio dei fondi gli altri, si sarebbero visti costretti a far
partire negoziati di pace col governo di Kabul. Ma la strategia non
sembra aver funzionato. I talebani, più dei pachistani, hanno
reagito diversamente tanto che Trump, dopo gli attentati, ha escluso
che si possa ancora parlare di negoziati.
Il
Pakistan è indubbiamente un attore chiave nella crisi afgana ma non
è onnipotente. Controlla il movimento talebano ma solo fino a un
certo punto e fino a un certo punto riesce a condizionarlo.
Immaginare che i talebani di Akhundzada siano eterodiretti da
Islamabad sembra più un desiderio che non una realtà. Benché i
paragoni in politica siano sempre effimeri e spesso fuori luogo,
Islamabad sta ad Akhundzada come Pechino sta al nordcoreano Kim
Jong-un che, come si è visto e nonostante le buone relazioni con la
Cina, agisce assai spesso di testa sua. Infine, Islamabad ha un
problema interno generato nelle aree tribali pashtun dalla presenza
dei talebani pachistani, movimento parente (anche etnicamente) dei
cugini afgani ma autonomo e filoqaedista. Per Islamabad il
terrorismo è un grosso problema interno e la sua incapacità di
risolvere il nodo in casa testimonia di quanto siano in realtà
complessi i rapporti tra governo e guerriglie. Se è pur vero che i
servizi pachistani hanno giocato e giocano a fare i burattinai con i
gruppi islamisti (spesso in chiave anti indiana), è altrettanto vero
che il gioco è sfuggito di mano. E stabilizzare l’Afghanistan è
probabilmente anche un interesse di Islamabad, pur con tutti i
distinguo. Anche perché Kabul chiude un occhio sui talebani
pachistani che cercano rifugio in Afghanistan.
Alzare
il livello dello scontro
La
tesi di una scelta autonoma dei talebani nell’alzare il livello
dello scontro ha dunque più di un valido motivo: è non solo un modo
di reagire al surge americano appoggiato dal governo di Ashraf Ghani,
ma quello di dimostrare che la guerriglia in turbante non è affatto
sulla difensiva. Spingere Trump a dichiarare che la pace è saltata è
per i talebani una vittoria. Il movimento, che raggruppa anime e
tattiche diverse, è abbastanza disomogeneo e le direttive vengono da
“shure (consigli) spesso strategicamente distanti, che amministrano
la guerra da Quetta a Peshawar ma anche da Mashad, in Iran, o da
Doha, dove il movimento ha un ufficio politico. Con gli attentati i
talebani danno però un’idea di unità di queste anime tanto
diverse: da quella del teologo Akhundzada, a quella di Sirajuddin
Haqqani, leader di una fazione stragista e minoritaria ma ormai
numero due del movimento.
A
tutto ciò vanno aggiunti altri due elementi: il primo è che le
stragi mettono in difficoltà un governo fragile e litigioso che gli
afgani percepiscono come incapace di garantire la loro sicurezza
persino nel centro della capitale. Il consenso al governo è così
labile che ogni attentato non fa che spingerlo sempre più in basso.
L’altro elemento riguarda lo Stato islamico e il suo progetto del
“Grande Khorasan”, regione ideale del progetto califfale che
comprende Iran, Afghanistan e Pakistan. Tra i due gruppi guerriglieri
si è inevitabilmente stabilita una sorta di rincorsa competitiva per
dimostrare chi sono i veri mujahedin. Lo Stato islamico non ha molti
combattenti in Afghanistan e ricorre quindi praticamente solo agli
attentati: suoi erano stati finora quelli col maggior numero di
vittime. Gli attentati talebani di Kabul sembrano dunque una risposta
anche a loro e una rivendicazione di supremazia strategico militare
per il primato sulla guerra nel nome di Allah.
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