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giovedì 15 febbraio 2018

Viaggio all’Eden. Vietnam tra cronaca e memoria (1)

“Giap Giap Ho Chi Minh – Giap Giap Ho Chi Minh”… Passeggiando davanti al mausoleo del liberatore del Vietnam – liberatore due volte anche se “zio Ho”, morto nel 1969, non vedrà mai la fine nel 1975 della “guerra americana” , come la chiamano qui - è difficile non fare un salto con la memoria all’epoca in cui le piazze italiane e non solo si riempivano di manifestanti contro la guerra in Vietnam. Negli Stati Uniti si bruciava la “cartolina” con cui i giovani venivano richiamati per andare a combattere “charlie”, il nome in codice dei Vietcong, guerrieri per la libertà che infestavano il Vietnam del Sud. Da Milano a Berlino, da Napoli a Parigi, studenti e operai univano agli slogan locali quelli dedicati all’Indocina. A quell’epoca andare in Vietnam per portare la propria solidarietà era impossibile e tutt’al più ci si poteva avvicinare al Laos, attraversando il militarizzatissimo confine tailandese dove c’erano le retrovie degli yankee. Il Laos era come sospeso in quella guerra non dichiarata che però colpiva con bombardamenti mirati – in Laos e Cambogia – il “cammino Ho chi minh”, la strada nella foresta con cui i nordisti rifornivano la guerriglia del Sud. Il Vietnam era un mito, simbolo di tutti i conflitti e della grande menzogna della “pacifica” Guerra fredda, che faceva migliaia di morti nelle risaie vietnamite o sulle montagne cambo-laotiane. Oggi, ad Hanoi, il mausoleo in puro stile socialrealista – scuro e austero – è un luogo tranquillo tra giardini curatissimi di minuti bonsai, guardie speciali vestite di bianco candido, e una fila interminabile di persone che vengono a porgere l’ultimo saluto al liberatore, che sotto l’imbalsamatura sembra dormire il sonno del giusto.

Nel nostro immaginario il Vietnam erano le paludi di Apocalypse Now o i sordidi quartieri di una Saigon che stava per soccombere e dove si aggirava Robert De Niro, cacciatore di cervi che la sporca guerra – iniziata da Kennedy e proseguita da Johnson per poi finire con Nixon (ovviamente “Nixon boia” come si gridava allora) – aveva spedito in Vietnam. A combattere prima e a cercare l’amico scomparso poi. E per la verità quei film, i primi che denunciavano con coraggio quel che quella guerra era appena stato – ci sembravano troppo tiepidi con le responsabilità americane e troppo severe coi Vietcong di Ho chi minh e Giap. I vietnamiti poi, la storia l’han riscritta a modo loro e adesso le foto e i quadretti con Giap e Ho si vedono solo nelle bancarelle. Il generale Giap, l’uomo che aveva messo a posto sia francesi sia americani, è caduto in disgrazia quando ha criticato il partito. Ed è morto senza onori per non disturbare il manovratore.
Il manovratore, il partito unico che con la politica del doi moi - che dal 1986 prefigura una socialist-oriented market economy - in realtà ha messo da parte il socialismo nell'economia del Paese, con gli americani ha fatto pace. Facendo pragmaticamente due conti e soprattutto decidendo di non finire completamente nella rete tesa dai vicini cinesi. Il modello economico – arricchirsi non è più un reato ma una virtù – può anche andar bene. Ma che i cinesi stiano a casa loro. A meno che non siano turisti o investitori.



Amici, nemici, amichetti

Con altri Paesi del vecchio asse comunista le cose invece son diverse. In questi giorni c’è una mostra, proprio a due passi dal mausoleo, che celebra l’amicizia tra i popoli vietnamita e russo: fotografie dell’epoca, visite ufficiali, manoscritti e dattiloscritti, armate di Vietcong e Armata Rossa e un Ho Chi Minh in cera che batte a macchina. La mostra è corredata dalle testimonianze di reduci dell’esercito del Nord. E guarda caso manca proprio Giap. I russi, come gli americani, come milioni di altri turisti ogni anno, sono ormai di casa in Vietnam. Le nuove classi medie, organizzate in tour tutto compreso e ormai dotate di passaporto, sono uno dei grandi introiti di un Paese che si sta attrezzando per riceverne sempre di più. Hanoi non è Hong Kong, né Londra o Parigi, né Singapore o Roma ma, stando alle stime ufficiali, nel 2017 Hanoi è stata visitata da quasi sei milioni e mezzo di turisti stranieri, con un salto del 23% rispetto al 2016. Anche i vietnamiti fan la loro parte, non fosse che per far la coda al mausoleo. Son stati quasi 25 milioni l’anno scorso secondo le statistiche interne: ossia un vietnamita su quattro! Il risultato economico per la capitale è valutato in 5 miliardi di dollari.

Scendendo verso il centro del Paese, per raggiungere Hue, la “Kyoto del Vietnam” e la sede dell'ultima dinastia (i Nguyen che diedero i natali all'ultimo imperatore Bao Dai), i numeri son meno impressionanti: poco meno di quattro milioni di visitatori nel 2017 il 40% dei quali stranieri in una provincia che si protende verso altri luoghi di grande richiamo più a Sud, come Hoi An e soprattutto My Son, sede rituale di un impero nato da migranti indonesiani (i Champa) che furono induisti, buddisti e, alla fine, pragmaticamente, musulmani. My Son è stata pesantemente bombardata dagli americani che han fatto a pezzi 50 dei suoi 70 templi. A restaurarli meglio dei francesi che scoprirono le rovine, ci dice una guida locale, son stati gli italiani. E un brivido corre lungo la schiena, per una volta non dovuto alle parole “mafia”, “milan” o “spaghetti”. Ma un altro brivido corre invece lungo la costa che da Da Nang, sede della più importante base americana dell’epoca, porta a Hoi An. Lasciata la città, chilometri e chilometri di spiaggia sono stati colonizzati sia da quartieri residenziali molto esclusivi sia da infrastrutture turistiche. Sono in costruzione – spiegano foto e scritte sui pannelli che nascondono i lavori in corso - sterminati campi da golf, resort per riccastri, parchi giochi e ancora golf. L’altra sorpresa potreste averla in città se ne aveste per associarvi al progetto del nuovo Hi-teck Park che offre vantaggi a chi investe in lavori pubblici, infrastrutture tecniche, o “progetti speciali”: nessun affitto per il periodo dei lavori, un bonus di 4 anni di esenzione totale e solo il 10% di tasse fisse per 15 anni mentre nei successivi 9 anni si godrà di una riduzione del 50% sulla tassazione dei profitti. Per progetti oltre i 130 milioni di dollari la tassazione al 10% potrà invece durare anche 30 anni. Da Nang farà concorrenza alle zone speciali di Hanoi e Città Ho Chi Minh (Saigon) che l’anno scorso ha attratto da sola 800 milioni di dollari di investimenti e l’anno prossimo se ne aspetta 900. Chissà zio Ho e Giap cosa ne pensano.

Parola di Doi Moi

“Sembra che il Vietnam ami il mercato ma in realtà è qualcosa di cui ha ancora paura”, sentenzia Nguyen Dinh Cung, dell’Istituto centrale per la gestione economica (Ciem), un ente di Stato per lo sviluppo dell’economia. In un forum di due giorni, il Ciem ha fustigato la lentezza dello sviluppo locale: il ministro per gli investimenti e la pianificazione (quel che resta di socialismo nell’economia del Vietnam) ha detto – riferisce la stampa – che i conti del 2017 mostreranno un “impressionante” crescita del 6,8% che nei prossimi 15-20 anni si assesterà su un aumento del Pil dell’8% e una crescita della produttività del 7. Cosa che, aggiunge il ministro Nguyen Chi Dung, si può ottenere solo con un mercato libero che il Paese ancora non ha: “Il Vietnam – dice Dung – non solo non è ancora riuscito a ridurre il settore statale e a espandere quello privato ma non riesce ancora a integrare l'economia informale in quella formale”. Esiste anche la preoccupazione che i nuovi lavori caratterizzati da tecnologia e robotizzazione riducano l’occupazione, timore forte – questo si tipicamente socialista - in un Paese che vanta un tasso di disoccupazione...all’1%. Ma sui rischi di un’eccessiva dipendenza dagli investimenti esteri (circa 28 mld di dollari nel 2017) si dice poco. Americani, giapponesi, coreani e cinesi la fanno da padrone in un’economia ancora profondamente fragile e agricola (su 95 milioni l’80% lavora nel primario) dove il partito unico si erge a baluardo di uno “sviluppo sostenibile” (era il titolo del forum). Una parola che non sembra esattamente coniugarsi coi campi da golf.
(1 - continua)

Questo reportage è stato pubblicato ieri sul quotidiano il manifesto




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