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sabato 19 gennaio 2019

Gli occhi di Jayavarman VII

Il viso scolpito di questo monarca khmer è quello di Jayavarman VII, il re cambogiano che, tra il 1181 e il 1218, fece raggiungere alla cosiddetta civiltà di Angkor il suo apogeo. Jayavarman VII è famoso per almeno quattro cose: aveva estromesso gli invasori Cham vincendoli in battaglia, era un monarca attento alle esigenze del popolino per cui costruì ospedali, magazzini e case di riposo ed era un fervente buddista.

La quarta cosa per cui è ricordato  è la costruzione del “suo” tempio, l’Angkor Tom, all’interno del quale c’è il tempio fortezza del Bayon. La sua particolarità è che vi sono raffigurate 52 teste del monarca che guardano in tutte le direzioni: il suo occhio benevolo ti protegge – ci spiega la guida – ma anche ti sorveglia. Sorride ma potrebbe pure arrabbiarsi.

Andare a visitare le rovine di Angkor (Angkor Wat, il tempio più grande, Angkor Tom e così via) è sempre stato un mio grande desiderio. Ma ero preparato al peggio. Sapevo che ogni anno tre milioni di turisti varcano i cancelli di un’area dove un controllo rigorosissimo esige il pagamento di ben 36 dollari per la visita di un giorno (il minimo indispensabile se non altro per rendersi conto di questo immane tesoro dell’umanità). Ci sono cinesi, giapponesi, francesi, australiani in tal numero che, come sull’Arca di Noè, quasi tutto il mondo vi è rappresentato (scarsi i latinoamericani, assenti gli africani….). Ma devo dire che nonostante il flusso incessante di turisti, la potente magia di quel luogo rimane intatta. E sembra persino contagiare l’osservatore la cui curiosità raramente si tramuta in schiamazzo. E del resto, mi dico, non è forse una meraviglia che tutti possano godere (nonostante il prezzo del biglietto), di una simile bellezza?

Il turismo, lo sappiamo è una benedizione e una piaga. Quando lo critichiamo non pensiamo mai di far parte anche noi di quel flusso e quando diciamo uffa non pensiamo alla quantità di denaro, di posti di lavoro, di occasioni che questa attività rappresenta. Purtroppo però l’eccesso di turismo è anche un fenomeno distruttivo: alberghi, albergoni, alberghetti, lievitazione dei prezzi (4mila dollari al metro quadro il terreno a Siem Reap) e poi plastica, consumo esorbitante di acqua, bolle speculative…

Eppure la potenza evocativa dell’arte khmer sembra sopravvivere. I monumenti strappati alla foresta con un lavoro attento, restituiscono una delle opere artistiche dell’uomo più sconvolgenti: decine e decine di bassorilievi delicatissimi e struggenti accompagnano il visitatore stupefatto che riconosce il guerriero e il dio, il pescatore e il demone, il re e il contadino. Una guida sembra necessaria per addentrarsi in questo splendore e poterselo godere piano piano capendo l’idea che ha guidato la mano di migliaia di scalpellini (Angkor Wat costò oltre trent’anni di lavoro….). Una settimana sembra il tempo giusto con un pass per tre giorni che non vi costerà meno di una settantina di dollari (nb in Cambogia c’è la doppia circolazione della moneta: riel e dollaro a un cambio fisso).

Insomma, se avete in mente un viaggio in Cambogia, ricordatevi di Jayavarman (a destra una testa in pietra del sovrano che si trova al Museo nazionale a Siem Reap). Sappiate che il circo che gli sta attorno vi spillerà tutto ciò che è possibile (il bellissimo museo  di Siem Reap vi chiede altri 12 dollari) ma sappiate anche che ne vale la pena. Sappiate pure che ce n’è per tutte le tasche: da 150 dollari a notte a 3 in un dormitorio.

lunedì 7 gennaio 2019

Com'era bella la mia isola

Sulla Thailandia insistono ogni anno circa 35 milioni di turisti. Considerato che è – se non la prima – tra le prime destinazioni mondiali e che, con 70 milioni di abitanti, uno su due è un turista (anche se ovviamente non tutti viaggiano nello stesso periodo), l’impatto non è devastante come ci si aspetterebbe, perlomeno qui nell’isola di Ko Chang, nel Nordest thai al confine con la Cambogia. A prima vista però la sensazione è tutt’altra: l’intera costa orientale dell’isola è un susseguirsi, quasi ininterrotto, di cottage, negozi, ristoranti, boutique e sale massaggio: attraversate musica, rumore e vari menù in cirillico.

Colonizzata da belgi, russi e cinesi (che contano un terzo delle presenze turistiche della Thailandia), il primo impatto – per chi amerebbe sfuggire al sound sfrenato dei vari cloni della stracitata Rimini - è deprimente. Ma di secondo acchito le cose cambiano. Girando in motorino (meno di 6 euro al di) si scoprono paesaggi incontaminati e le costruzioni, al 95% di un piano o due, non si notano dal mare: sono nascoste dal folto della macchia selvaggia che ricopre l’intera isola (anche se purtroppo arrivano a ridosso della battigia). E più si va a Sud, più la pressione turistica diminuisce e così i prezzi dei bungalow (da 15-20 euro in su per una doppia).
Resort seminascosti ma sulla spiaggia a Ko Chang
Sotto: Ko Wai

C’è di più: prendendo un battello per le altre isole, si può trovare la piacevole sorpresa di Ko Wai (la più piccola delle abitate) dove l’elettricità arriva solo col generatore 5 ore al giorno e non c’è neppure il wi fi, ossessione della nostra epoca (si può però comprare una sim locale per 590 bath, poco meno di 17 euro). Ko Wai è davvero “basic”: niente acqua calda, niente ac, nemmeno il ventilatore. Ma per chi ama starsene in pace è un luogo da sogno anche se, per quel che ti vien dato, il sogno ha un costo relativamente elevato (l’isola non si può attraversare così che si rimane confinati nel resort selezionato dove nell'unico ristorante si paga il doppio che a Ko Chang).

C’è un altro elemento interessante che dà conto dell’organizzazione ormai capillare del turismo thailandese. Poiché il servizio taxi a Ko Chang è assai ridotto, per raggiungerla – dal continente o dalle isole - ci si mette d’accordo con le varie barche per andare dal molo dove verreste scaricati al tal posto, al tal resort. Ed è la barca che poi, compreso nel prezzo (caro), vi consegna un servizio free taxi dal porto al vostro albergo. Molto comodo ma inquadrato e, se non avete dove andare, vi mollano al molo e sciao. Infine: se la splendida Ko Wai equivale a un’esperienza da Robinson – che anche tante famigliole con figli piccini scelgono però di fare – la plastica è la maledizione che vi circonda. I locali la raccolgono per tenere un po’ in ordine e anche voi potete contribuire: ma il mattino seguente il vostro angolo di paradiso è ancora un’accozzaglia di cannucce, ciabatte, bottiglie, sminuzzati puzzle di polistirolo portati dalla corrente o dal monsone (nord ovest nell’inverno boreale). Fin dal Vietnam o dalla vicina Cambogia. Anche Ko Wai vi ricorda che il pianeta è uno. Che quando buttate da qualche parte la cicca, il blister di farmacia, la plastica che avvolge un mazzo di carte, tutta sta robaccia non degradabile continua a viaggiare. Spesso lungo i fiumi fino al mare. E magari da Milano arriva a Ko Wai dove Robinson scopre (o si ricorda) che esiste Nestlè.

Due piccole note. La prima: sulle strade tailandesi abbiamo notato pochissima plastica che abbonda invece sulle civili strade italiane. La seconda: a Ko Wai, che direste meta di evoluti olandesi volanti, algidi britannici o aguzzi svedesi, c’è una discreta quantità di cinesi a cui piace, quanto a noi europei, anche l’esperienza selvatica e minimale (nel senso dei servizi) dell’isola selvaggia. Il pianeta è sempre uno e i comportamenti tendono a uniformarsi. Non sempre al peggio.



Nella foto qui sotto si vede il sovrumano sforzo di raccolta di plastica e lattine del Paradise Resort. Il suo manager paga una volta l’anno una barca privata che per 7mila bath (200 eu) conferisce il materiale a un’azienda di riciclaggio sul continente. Il ricavato non compensa la spesa del viaggio di trasporto.



lunedì 31 dicembre 2018

Tutti al mare a mostrar le chiappe chiare

Che l’ineleganza sia ormai un tratto delle società contemporanee – specie di quelle come la nostra in cui l’eleganza era un elemento saliente – è un dato di fatto. Che non smette mai di stupire. Colpisce, qui a Bangkok – una capitale da oltre dieci milioni di abitanti – che le frotte di turisti che ogni giorno arrivano durante le feste per raggiungere le spiagge delle vacanze, si tramutino in pochi minuti da viaggiatori malvestiti in tipi da spiaggia cui manca solo l’ombrellone. Smessi i panni del viaggiatore, nove su dieci si infilano short e flip flop e, ostentando cappellini e occhiali da sole, passeggiano in città come fossero sulla spiaggia. Un attimo di resipiscenza - che ogni luogo dovrebbe avere il suo costume - arriva all’ingresso dei templi dove rigidissimi funzionari bacchettano le spalle nude, le ciabatte sciabattanti, calzoncini e minigonne. E’ bizzarro come guardiamo con fastidio i turisti stranieri che nelle città d’arte italiane si sbracano nelle fontane e camminano per Via Veneto come fossero a Pietrasanta. Ma quando tocca a noi (e per carità mi ci metto anche io), proprio a noi che non vorremmo mai figurar per turisti, ecco che ci dimentichiamo il bon ton e – ignari del ridicolo che suscitiamo – andiam per mercatini e negozi come fossimo ai bagni anche se Bangkok è bagnata solo da un fiume.

Accanto a questa mancanza di attenzione – che detta così sembra profilarsi come un mio stucchevole moralismo d’antan – ci dimentichiamo anche che l’eleganza è, quella si, un obbligo etico. E invece questa massa informe, omologata dalle tunichette e dalle immancabili tennis, i cappellini con visiera e l’esibizione dell’ultimo tattoo, manca proprio di eleganza, dunque di rispetto. Le donne appena un po’ meglio degli uomini, dominati da rasature marinaresche e colori che raramente si discostano dal nero. Nel nefasto sciame spiccano gli asiatici di casa che son vestiti normalmente come si usa in città. Sfilano come lo schiaffo che l’Asia sta affibbiando al Vecchio Continente dominato dalle felpe ormai costume anche degli uomini di governo. Che sia un atteggiamento aristocratico? Può essere, ma mi dà un senso di disagio. Vorrei essere nell’Oriente profondo ma resto invece nel circo discinto dei miei conterranei. Perdo il fascino sottile di queste terre mentre osservo chi mi somiglia passeggiare altezzoso sul pavè come Pippononlosa. Che quando passa ride tutta la città.

giovedì 15 febbraio 2018

Viaggio all’Eden. Vietnam tra cronaca e memoria (1)

“Giap Giap Ho Chi Minh – Giap Giap Ho Chi Minh”… Passeggiando davanti al mausoleo del liberatore del Vietnam – liberatore due volte anche se “zio Ho”, morto nel 1969, non vedrà mai la fine nel 1975 della “guerra americana” , come la chiamano qui - è difficile non fare un salto con la memoria all’epoca in cui le piazze italiane e non solo si riempivano di manifestanti contro la guerra in Vietnam. Negli Stati Uniti si bruciava la “cartolina” con cui i giovani venivano richiamati per andare a combattere “charlie”, il nome in codice dei Vietcong, guerrieri per la libertà che infestavano il Vietnam del Sud. Da Milano a Berlino, da Napoli a Parigi, studenti e operai univano agli slogan locali quelli dedicati all’Indocina. A quell’epoca andare in Vietnam per portare la propria solidarietà era impossibile e tutt’al più ci si poteva avvicinare al Laos, attraversando il militarizzatissimo confine tailandese dove c’erano le retrovie degli yankee. Il Laos era come sospeso in quella guerra non dichiarata che però colpiva con bombardamenti mirati – in Laos e Cambogia – il “cammino Ho chi minh”, la strada nella foresta con cui i nordisti rifornivano la guerriglia del Sud. Il Vietnam era un mito, simbolo di tutti i conflitti e della grande menzogna della “pacifica” Guerra fredda, che faceva migliaia di morti nelle risaie vietnamite o sulle montagne cambo-laotiane. Oggi, ad Hanoi, il mausoleo in puro stile socialrealista – scuro e austero – è un luogo tranquillo tra giardini curatissimi di minuti bonsai, guardie speciali vestite di bianco candido, e una fila interminabile di persone che vengono a porgere l’ultimo saluto al liberatore, che sotto l’imbalsamatura sembra dormire il sonno del giusto.

Nel nostro immaginario il Vietnam erano le paludi di Apocalypse Now o i sordidi quartieri di una Saigon che stava per soccombere e dove si aggirava Robert De Niro, cacciatore di cervi che la sporca guerra – iniziata da Kennedy e proseguita da Johnson per poi finire con Nixon (ovviamente “Nixon boia” come si gridava allora) – aveva spedito in Vietnam. A combattere prima e a cercare l’amico scomparso poi. E per la verità quei film, i primi che denunciavano con coraggio quel che quella guerra era appena stato – ci sembravano troppo tiepidi con le responsabilità americane e troppo severe coi Vietcong di Ho chi minh e Giap. I vietnamiti poi, la storia l’han riscritta a modo loro e adesso le foto e i quadretti con Giap e Ho si vedono solo nelle bancarelle. Il generale Giap, l’uomo che aveva messo a posto sia francesi sia americani, è caduto in disgrazia quando ha criticato il partito. Ed è morto senza onori per non disturbare il manovratore.
Il manovratore, il partito unico che con la politica del doi moi - che dal 1986 prefigura una socialist-oriented market economy - in realtà ha messo da parte il socialismo nell'economia del Paese, con gli americani ha fatto pace. Facendo pragmaticamente due conti e soprattutto decidendo di non finire completamente nella rete tesa dai vicini cinesi. Il modello economico – arricchirsi non è più un reato ma una virtù – può anche andar bene. Ma che i cinesi stiano a casa loro. A meno che non siano turisti o investitori.

domenica 24 dicembre 2017

Turista o viaggiatore?

Ecco, nella foto a fianco, la mirabile sintesi del dibattito che si è tenuto ieri a Esc/Livre (Roma) dove abbiamo chiacchierato di  Viaggio all'Eden con l'ottimo Giacomo Salerno, che faceva gli onori di casa, e il grande viaggiatore e amico Giuliano Battiston...

mercoledì 28 gennaio 2015

Corviale ai tropici. Cartolina da Sri Lanka

Prima di lasciare Sri Lanka alla volta dell'India e dopo aver verificato che i traghetti dall'isola di
Mannar per la terraferma non sono ancora stati ripristinati, si sceglie la cittadina più vicina all'aeroporto che è per forza di cose la città di Negombo, praticamente attaccata allo scalo internazionale a una trentina di chilometri a Nord della capitale. Ovviamente non siamo sorpresi che si tratti di una località turistica dal momento che non è nemmeno necessario passare da Colombo per raggiungerla se si viene dall'Europa.

Negombo è una cittadina sul mare con una bella laguna, canali scavati dagli olandesi e dominata da quel che resta del vecchio forte che la Voc, la compagnia delle Indie, aveva strappato ai portoghesi, primi europei a dominare la perla dell'Oceano indiano. Poi però la cittadina è andata sviluppandosi turisticamente soprattutto lungo una strada in riva alla spiaggia costellata di piccoli alloggetti che si fanno via via più grandi sino a diventare degli ecomostri. La foto a fianco indica una sorta di "Corviale beach" che, rispetto alla mostruosità architettonica della capitale italiana, consta solo di circa 500 metri in meno rispetto al chilometro di Corviale. Ma l'impatto è del tutto simile. L'opera è in costruzione ma, viene da chiedersi: chi sarà mai tanto pazzo da fare le vacanze a Corviale? Pubblico di seguito alcune brutture alberghiere e invece alcuni scorci piacevoli di Negombo, sempre a proposito dei guasti del turismo. La differenza tra portare soldi e portare ...sviluppo.*

giovedì 22 gennaio 2015

Non si uccidono così gli elefanti: come il turismo sta assassinando Sri Lanka

Avevo sentito dire e letto di Kandy ogni meraviglia. E anche ogni male, dal momento che la capitale delle Hills dello Sri Lanka, una delle zone a maggior densità di produzione di tè nel mondo, nasconde anche il tragico segreto delle condizioni di lavoro nelle piantagioni, che furono – obviously -un'idea degli inglesi. Che tra l'altro, per i loro noti calcoli politico economici, importarono un milione di tamil dall'India per farli lavorare nei campi dando una mano a creare uno dei maggiori problemi di questo Paese che risiede nella difficile convivenza tra singalesi (sinhala) e tamil. Ma sul fronte turistico la città appariva, nei racconti d'antan e nelle guide, come un piccolo paradiso tropicale dove rinfrancare lo spirito e rinfrescare il corpo (500 mt d'altezza).

Hermann Hesse
Lo spirito ahinoi ha poco da rinfrancarsi e questo già lo aveva scritto Hermann Hesse, cui di Kandy non era piaciuta quel che gli sembrava una pessima deriva del buddismo quivi praticato. Anche il nostro spirito è rimasto piuttosto rattristato: non solo dalle deviazioni attuali del buddismo (in parte violento identitario e nazionalista), che devono far rigirare il povero Hesse anche nella tomba, ma anche dal paesaggio, urbano e umano.

Il nostro alberghetto, pulito e senza troppe pretese, sta di fianco a uno dei suoi tanti gemelli – ve ne sono davvero a decine – che si chiama “Lake View”. Ma oggi, più che il lago vedete un monumento di cemento armato di otto piani in fase di costruzione. Potreste tentare di sbirciare verso la residenza del “sacro dente”, che apparteneva all'altrettanto sacra e venerata arcata mandibolare di Gautama Siddharta, ma l'occhio vi cade su un imponente albergo splendente di bianco nitore che sembra di una quindicina di piani. Scossi dal “Building View”, mentre siete assaliti dai dubbi per aver scelto questa meta e vi difendete da uno stuolo di assalitori che vi vogliono vendere un tour, consigliare un ristorante, farvi risparmiare sull'acquisto delle banane, vi vien fatto di pensare se anche questa città – con un vecchio centro storico affacciato su un lago suggestivo – non sia l'ennesima vittima del turismo. Al cui omicidio state contribuendo anche voi.

Sceso dal Nord, quasi privo di occhi esterni (un po' per via di trent'anni di guerra un po' perché il turismo non è molto incoraggiato e le strutture ricettive scarseggiano), il primo impatto vero col turismo è stata per me la città di Arunadhapura, l'antica capitale dello Sri Lanka che annovera rovine suggestive di un'ampiezza imponente e stupa assai ben conservati che risalgono al secondo o terzo secolo A.C. La città è quel che è – una lunga caotica fila di negozi immersa in un traffico abbastanza caotico – ma le rovine sono davvero uno spettacolo (ben conservato) che merita un viaggio. Il contorno però è sfiancante. Siete l'oggetto di un furto continuato: inizia il tuk tuk (i Bajaj a tre ruote che fungono da taxi economici) che non vi porta nel posto richiesto, continua con l'albergatore con cui dovete fare un'estenuante trattativa sul prezzo della camera, finisce con l'offerta-truffa di bypassare l'acquisto del carnet d'ingresso alla zona archeologica pagando un po' meno di metà prezzo (ma in realtà vi mostrerebbero quasi solamente la parte che si può comunque visitare gratuitamente). La cosa migliore è procurarsi una bicicletta e auto organizzarsi. Con l'aiuto della Lonely Planet? Si certo, ma tenendo conto che nemmeno questa guida è più quella di una volta e si è molto standardizzata. Alcune di questa piacevolezze non ve le racconta.

Nonostante Colombo sia una bella e ordinata città che merita una visita (contrariamente
Kandy: da Lake View a Building View
al mantra sul suo traffico disordinato e caotico) e nonostante la bella passeggiata nel Nord (di cui mi riprometto di riferire in seguito), la perla dell'Oceano indiano è un'esperienza a volte persino deprimente. Credo che ciò imponga una riflessione sul turismo, anche sul cosiddetto turismo sostenibile o responsabile: riflessione ineludibile perché ne siamo i protagonisti principali. Se lo Sri Lanka (che durante gli anni della guerra ha già fatto i conti con la caduta delle presenze) non fosse più la meta che è, il suo Pil ne soffrirebbe parecchio. I turisti – quella massa un po' grigia e malvestita in short, scarpe da tennis col calzino sporco, t-shirt e zaino in spalla – sono una manna che garantisce ingresso di divisa forte, occupazione e... sviluppo. Ma è sullo sviluppo che grava l'interrogativo (sui primi due punti siam tutti d'accordo).

Arunadhapura: area archeologica estesa
e molto ben conservata
Se lo sviluppo è la vista sul grattacielo anziché sul sacro dente, se una passeggiata vi costringe a fuggire venditori e guide variamente dissimulate, se il vostro rapporto con la gente è diventato ormai una relazione semplicemente commerciale, al massimo si sviluppa una grande distanza tra visitatori e visitati. Certo direte voi, lo sviluppo è per gli srilankesi, e questo è il prezzo da pagare. Ma io temo due cose: la prima è che la vista sul grattacielo rimarrà agli srilankesi che si godranno gli effetti perversi generati dal flusso turistico. Secondo, Sri lanka corre il rischio di fare la fine dell'Italia, un Paese che negli anni Sessanta-Settanta era nei primi posti delle classifiche e cui adesso viene preferita persino la Germania (siamo esosi, imbroglioni e maestri nella rovina del paesaggio). La soluzione non è certo il solo turismo d'élite che, anzi, quello del viaggiatore a low budget è senz'altro meno impattante e diffonde ricchezza in modo più egualitario (a parte l'enorme quantità di lavoro minorile). Ma c'è qualcosa che non va e che lascia l'amaro in bocca. Un po' come il tè e le sigarette.

Le seconde costano come uno stipendio (circa 4 euro al pacchetto), sono rigidamente contingentate (un problema trovarle) e sono solo di un paio di marche. Ma questo – direte voi – riguarda solo gli orridi viziosi con la cicca in bocca, politicamente e salutisticamente scorretti. Allora veniamo al tè. Nel Paese dove si produce uno dei tè migliori del mondo (lasciamo stare in che modo), è quasi impossibile bere un tè decente. La media è a livello di quello che vi propinano nei bar italiani. Tutto se ne va in esportazione e il fondo del sacco resta qui. Oggi andremo a vedere il Museo del tè di Kandy per vedere se ne rimediamo una bustina.