Ritiro delle truppe? Nemmeno accennato |
Se si fosse trattato di un incontro coi precedenti governi nulla ci sarebbe di nuovo sotto il sole. Ma il fatto che Moavero rappresenti M5S e Lega – due movimenti che si sono sempre sbracciati per il ritiro delle truppe – fa specie. Se quella di Salvini è sempre stata una posizione qualunquista che parlava alla pancia del Paese, in passato il movimento di Grillo ha invece tenuto un profilo alto: nel maggio del 2013, appena eletti in parlamento, i deputati M5S presentarono come primo atto politico una mozione che chiedeva il ritiro delle truppe e più cooperazione civile. Gli autori principali erano Carlo Sibilia, Manlio Di Stefano e Alessandro di Battista, protagonisti di fiammeggianti interventi per la fine della missione militare. Oggi? Di Battista - molto defilato - è negli Usa, Sibilia è sottosegretario agli Interni e Di Stefano è sottosegretario agli Esteri con delega alla cooperazione. Al momento della fiducia al governo Di Stefano ha ribadito la necessità del ritiro, ma non ce n’è traccia nella posizione governativa. Né in quella di Moavero né in quella del ministro della Difesa Trenta che pure ha incontrato Abdullah il quale, in un'intervista a RaiNews24, ha ringraziato il governo per il sostegno militare col secondo contingente più numeroso. Quanto alla Lega, le priorità sono altre.
Le due forze politiche che hanno dato vita al governo Conte, in particolare i Cinque Stelle, sembrano dunque aver archiviato gli annunci e le richieste di un tempo. Al loro posto, la consueta subalternità atlantica: in coda, ad aspettare la linea. Eppure la tregua di tre giorni in Afghanistan ha aperto una finestra politica inedita, uno spazio di manovra per trovare finalmente una soluzione negoziata al conflitto. Azzardata dal presidente Ghani, la mossa della tregua ha costretto i Talebani a deporre le armi per tre giorni. Tre giorni in cui il nemico, fin qui guardato dal mirino di un fucile, è diventato persona in carne e ossa. In quasi tutte le province ci sono stati eventi di fraternizzazione tra barbuti da una parte e soldati e funzionari governativi dall’altra: dall’Helmand a Kabul, da Nangarhar a Kunduz, da Ghazni a Takhar. In qualche provincia alcuni Talebani di basso e medio livello, contravvenendo alle direttive della leadership, chiedono il prolungamento della tregua. Succede perfino nel distretto di Urgun nella provincia di Paktika, in una zona controllata dalle rete Haqqani, la fazione stragista e oltranzista degli studenti coranici. Il negoziato vero è ancora lontano e non mancano i rischi, ma i segnali recenti vanno incoraggiati. Per farlo, occorrerebbe più diplomazia. Quella a cui il governo italiano sembra aver rinunciato per mettersi sugli attenti. Un perfetta continuità.
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