Quel che spesso disntigue un libro riuscito da una somma di parole è anche il modo in cui un testo – romanzo o saggio che sia – si lascia leggere. Se a un certo punto, arrivando in fondo o a metà, cominciate a sfogliare le pagine per vedere quante ne mancano alla fine, forse non ci siamo. Ma quando al contrario iniziate a sfgoliare le pagine perché, aihmé, vi stanno tragicamente segnalando la conclusione, allora – almeno per voi – quello è un grande libro. “Pol Pot. Anatomy of a Nightmare” di Philip Short, che per ironia della sorte ha un cognome che signifca “corto”, fa parte di questi. Con un altro indicatore – trattandosi di un saggio - del valore del testo: la avida lettura delle note per poter guadagnare qualche altra decina di pagine alle misere... 660 del volume.
“Pol Pot. Anatomia di uno sterminio”, come Rizzoli ha preferito tradurre nel 2005 il titolo originale, è in realtà davvero un viaggio in un vero e proprio incubo. Un incubo per milioni di cambogiani, trasferiti in massa dalle città alla campagna, che nasce dal sogno folle del loro laeder Pol Pot, al secolo Saloth Sar, in seguito noto anche come Fratello numero 1. In effetti il compagno Pol Pot (1925-1998), vocazione monacale, riservatezza austera, grande carisma e disciplina morale, all’inizio appare soprattutto come un libearatore: la sua storia però si presta a essere raccontata come una sorta di romanzo dell’orrore; un orrore corroborato, nello stile asciutto di Short, un giornalista della Bbc, da documenti e prove certificate che lasciano assai poco all’inventiva.
Il giovane Saloth Sar matura le sue idee in Francia, nel ristretto circolo universitario dove i cambogiani che se lo possono permettere, studiano le scienze politche e si avvicinano al marxismo. Ma sviluppa poi un pensiero molto personale, solo apparentemente “orientale” e in realtà assai vicino al nazismo, che prevede la creazione di un uomo nuovo: ideologicamente puro, etnicamente khmer, socialmente sottomesso alla logca numerica di fratelli – 1, 2, 3, 4 e così via – vestiti tutti allo stesso modo e obbedienti all’inattaccabile macchina del partito. Nessuno escluso. Nemmeno lui, sempre in sandali e con un vestito nero ingentilito da una sciarpetta a scacchi rossi.
Short (ha dedicato anche un libro a Mao e uno a Mitterand) ne delinea il percorso – storico, ideologico e di guerriero – conducendo il lettore per mano nell’incubo poltico peggiore della fine del secolo scorso. Aggiungendo a una luce già sinistra – quella della guerra vietnamita – l’epilogo disgraziato della reinterpretazione del concetto di tabula rasa. Un perido controverso, attraversato dall’incapacità iniziale della sinistra (salvo pochissime eccezioni alla Tiziano Terzani) di rendersi conto del baratro cambogiano.
Come diceva un saggio, di alcuni libri basta leggerne la metà, di altri ancora l’incipit e la conclusione. Altri al contrario si divorano sino alla fine. Note comprese appunto. Eccone uno che non invecchia.
Una recensione scritta per l'inserto Asia de il manifesto uscito il 31 luglio
Nessun commento:
Posta un commento