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domenica 29 dicembre 2019

Afghanistan, bilancio di fine anno


La mattina del 29 dicembre di quarant'anni fa, l'Afghanistan si svegliò ormai completamente prigioniero dell'Armata rossa che, il giorno prima, aveva completato tutte le operazioni di controllo del regime di Afizullah Amin (che già  il 27 aveva pagato con la vita i dissidi con  Mosca) e che quella mattina aveva annunciato, attraverso Radio Kabul, che il Paese era stato "liberato". Cos resta  dell'avventura bellica iniziata allora e proseguita con un conflitto interno e l'invasione del 2001 è noto. Ma cosa riserva il 2020 agli afgani?
Senza bisogno di fare profezie sul futuro – un mestiere che compete ai meteorologi – è abbastanza evidente che sul risultato finale delle presidenziali afgano si stiano addensando nubi tempestose. Un risultato ancora incerto si accompagna inoltre a un’ennesima stagione di veleni dove accanto alle denunce di frode, che vedono le accuse del dottor Abdullah nutrirsi di altri lai, non si risparmiano colpi bassi. Nemmeno all’alleato maggiore, gli Stati Uniti, accusati ieri pubblicamente dal Consigliere per la sicurezza nazionale Hamdullah Mohib di preoccuparsi più dello scambio di prigionieri occidentali in mano ai talebani che non del futuro degli accordi di pace. Tutto ciò non promette nulla di buono.

A fine settembre del 2014, a sei mesi dal primo turno delle penultime presidenziali, toccò al segretario di Stato Usa John Kerry risolvere le beghe elettorali nate dal primo scontro tra Ghani e Abdullah. Con abilità e fermezza, Kerry – che citò quell’accordo come un esempio di statesmanship and compromise (arte di governo e compromesso) - riuscì a far convergere i due sulla formula di un governo di unità nazionale che prevedeva una divisione dei poteri al 50 per cento tra i due contendenti: l’uno presidente, l'altro “capo dell’esecutivo”, bizzarra figura né premier né vicepresidente e non prevista dal dettato costituzionale afgano. I due, e con loro gli afgani, digerirono. Ma adesso...

Adesso, Ghani e Abdullah sono ancora lì ma al posto di Kerry c’è Mike Pompeo e, al posto di Obama, Donald Trump, un presidente instabile, sotto pressione per l’impeachment e capace di formidabili colpi di testa. Dall’altra parte della barricata ci sono più o meno gli stessi talebani di allora - nella sempre difficile situazione di squilibrio tra le varie fazioni del movimento - e in mezzo ci sono gli afgani, stretti in una miscela di dolorosa disperazione che si è espressa nella ennesima grande illusione del voto. Un voto dove ha elettoralmente parlato una popolazione di meno di due milioni di elettori su 9,7 di aventi diritto. Che equivale a circa la metà degli abitanti di Kabul.

Anche se gli americani appaiono riluttanti a una nuova “soluzione Kerry”, saranno obbligati a prendere il toro per le corna. Gli altri partner della coalizione sono ormai così sfiniti da questa avventura senza fine che il mutismo è la loro condizione ormai abituale. Mentre non è escluso che russi e cinesi, sempre più attenti alle vicenda afgane, si facciano avanti suggerendo una qualche soluzione che raffreddi gli animi.

In tutto ciò la colpa di questi animi surriscaldati è responsabilità anche degli afgani o meglio dell’élite che, col beneplacito degli alleati, governa il Paese da quando lo scettro del comando fu consegnato a Karzai nel dicembre del 2001. Da allora una pedissequa acquiescenza ai nuovi padroni del Paese, unita alla sacra alleanza con gli ex signori della guerra e i sempre attivi signori della terra, ha lavorato soprattutto per spartirsi privilegi e potere ricorrendo tra l’altro al peggiore degli strumenti: quello identitario. Soffiare sul fuoco del nazionalismo pashtun, tagico, hazara – un refrain sul tribalismo che in Occidente ha molti adepti – fa degli afgani un popolo che non merita né attenzione né solidarietà. La responsabilità di questa deriva, alimentata all’occorrenza dai partner americani e della Nato, ricade sui politici afgani. Non certo sulla gran parte della popolazione che, tra l'altro, ha marciato in lungo e in largo per il Paese facendo la richiesta più sensata: far tacere le armi.
Nessuno li ha ascoltati. Né le cancellerie, né i talebani, né il governo di Kabul e neppure la grande stampa. Tutti complici – a diverso titolo – della stessa congiura del silenzio che ha soffocato l’unica vera novità politica innovativa di questi anni.

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