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sabato 14 novembre 2020

Un plebiscito per Aung San Suu Kyi



I dati ufficiali della Commissione elettorale birmana non sono ancora definitivi. Ma lo spoglio è più che sufficiente alla Lega nazionale per la democrazia (Lnd) per dichiararsi la vincitrice della prima elezione del Myanmar che si sia svolta sotto un governo civile. Si sa già anche che la Lega, il partito di Aung San Suu Kyi, ha ampiamente superato i 322 seggi necessari, nelle due Camere, per formare un nuovo governo. Voto più voto meno qui e là e una piccola batosta in aree come il Rakhine, dove la metà dei seggi son rimasti chiusi a causa della guerra, la Lega può vantare un consenso che ha riproposto un sostegno a valanga. Ne escono con le ossa rotte i militari e il loro partito per la solidarietà e lo sviluppo che, tanto per stare in linea con il trend generale, han subito contestato i risultati (con altri 16 partiti minori) chiedendo una Commissione di indagine sotto l’egida dell’esercito. 

Anche le organizzazioni di monitoraggio del voto han sollevato questioni su alcune irregolarità ma non c'è abbastanza per dichiarare nullo un plebiscito per altro largamente previsto, nonostante i dubbi per via del Covid-19 e per i tanti risultati mancati nelle promesse fatte nel 2015 quando si svolsero le prime elezioni libere. La Lega intanto ha aperto il dialogo con 39 parti “etnici” (che rappresentano le varie nazionalità del Paese, esclusi ovviamente i Rohingya) per fare dell’Unione repubblicana birmana - com'è ora - una Federazione, passaggio fondamentale anche per far si che la guerra tra Bamar e altre nazionalità smetta di consumare vite ed energie. Persino Tatmadaw, il nome con cui sono noti i militari birmani, sembra in realtà prepararsi già al futuro governo della Lega, tanto che l’altro ieri ha fatto sapere che sarebbe  d’accordo a un nuovo riavvio del processo di pace già in corso con diversi gruppi armati (per ora 10), includendo nel negoziato anche quelli che non hanno ancora siglato l’Accordo di cessate-il-fuoco (Nca), precondizione che hanno sempre ritenuto (e imposto) come pregiudiziale e che, cadendo, aprirebbe la strada al dialogo con almeno altre sette formazioni. Resta da vedere cosa fare con l’Arakan Army, protagonista del conflitto più recente negli Stati Chin e Rakhine. La Lega sarebbe disposta a negoziare. I militari, che hanno inserito l’AA tra i gruppi terroristi, han sempre detto no.... (continua su il manifesto)

venerdì 10 luglio 2020

Sfida elettorale (scontata) nella Città del Leone

Lo Straits Times di Singapore, il giornale vetrina della città-stato, spiegava ieri mattina che la Città del Leone ha siglato tre dei primi cinque contratti di private equity e venture capital conclusi nella regione nel primo trimestre del 2020. E che benché l'attività economia si sia ridotta nel Sudest asiatico a causa del Covid, i tre accordi fanno un pacchetto di investimenti di oltre 800 milioni di dollari nei settori software, e-commerce ed energia solare. Innovazione tecnologica, per di più pulita. La notizia della buona performance della Città del Leone precede di un giorno le elezioni per l’unica Camera dell’isola che da 15 legislature è saldamente in mano al  People's Action Party (PAP) dell’attuale premier Lee Hsien Loong. La sua riconferma nel voto di oggi è scontata e si tratta solo di vedere se conserverà tutti i seggi (82 su 93) che gli contende un’opposizione che nelle ultime elezioni ha guadagnato punti ma che ora sembra molto sulla difensiva. Sa che non può vincere ma spera almeno di non perdere gli scarsi consensi guadagnati in passato.

Corre comunque divisa: a contendersi i parlamentari sono 11 partiti  con 192 candidati in uno scrutinio affidato a 2.6 milioni di elettori (circa un terzo dei quasi 6 milioni di residenti) che possono votare solo se hanno compiuto 21 anni. L’esito appare dunque scontato e si chiama Lee. Lee Kuan Yew è stato il grande padre padrone, paternalista autoritario e anti comunista, che ha dominato la politica di Singapore per decenni. Non un dittatore come Marcos o Suharto però, e abile negli affari e nel mantenere in equilibrio il melting pot della città. Poi lo scettro, salvo l’interregno del fedelissimo Goh Chok Tong (1990-2004), è passato al figlio Lee Hsien Loong il cui fratello minore, Lee Hsien Yang, milita invece nelle file dell'opposizione del Progress Singapore Party. Ha avuto il buon gusto di non candidarsi sostenendo che a Singapore di Lee ce ne sono abbastanza. Entrambi sono ex generali.

Di padre in figlio, il piccolo villaggio di pescatori, divenuto poi un polo commerciale di Sua Maestà britannica,  è riuscito a diventare una specie di Svizzera dell’Asia ma senza puntare solo sul settore bancario. Singapore è una delle grandi capitali dell’innovazione tecnologica e Tiziano Terzani l’aveva definita un Paese ad aria condizionata già negli anni Settanta. Ha saputo tenere a bada cinesi e americani alleandosi di volta in volta con loro ma tenendo le distanze e si è ritagliata un ruolo politico di primo piano anche se è poco più di una città con qualche isolotto e atollo (una sessantina) e un entroterra che sembra solo un grande giardino, 700 kmq in tutto, come il Cantone svizzero di Glarona. Un miracolo con i suoi buchi neri: oltre al voto per gli over 21, leggi draconiane di controllo sulla stampa, per esempio, e una manodopera immigrata con scarse garanzie, finita nell’occhio del ciclone per la sua ghettizzazione in epoca Covid; 300mila persone stipate in una quarantina di dormitori che si sono trasformati in un focolaio virale che ha messo in crisi la gestione del Coronavirus.

Eppure i migranti restano un buon esempio da demonizzare. Lo fa il Workers Party, nonostante sia di ispirazione socialdemocratica, l’unico partito che rappresenta una lieve minaccia per il PAP: ha pensato bene di mettere nel suo programma la limitazione degli ingressi, una politica “sovranista” che non è nemmeno nelle corde del PAP che sa benissimo come uno dei segreti del suo successo si debba proprio a questi silenziosi muratori, elettricisti, spazzini e camerieri a basso costo disposti a far la fila per partecipare al “miracolo” del Leone diventato Tigre.

lunedì 20 aprile 2020

La crisi fa paura. In Asia un po' meno

Sui giornali birmani si sprecano le fotografie della distribuzione gratuita di riso. La crisi fa paura e la Banca asiatica di sviluppo ha già stimato che il Pil rallenterà significativamente al 4,2 rispetto al 6,8 dell’anno prima. Il ministero del Commercio ha ridotto la tassa di licenza per le imprese di importazione di quasi la metà e ha invece sospeso il rilascio dei permessi di esportazione del riso per mantenere la stabilità del prezzo di un bene esportato per oltre 20 milioni di tonnellate l’anno. Se il Myanmar ha ancora pochi casi di Covid-19, in Indonesia, il Paese più a rischio dell’Asia con l’India e che viene paragonato all’Italia, il governo stima che quasi 4 milioni di indonesiani potrebbero finire in povertà e oltre 5 milioni perdere il lavoro. Giacarta ha stanziato oltre 26 miliardi di dollari per pacchetti di stimolo incentrati su spesa sanitaria, protezione sociale e ripresa economica. L’orizzonte è cupo.

Le stime del Fondo monetario internazionale – che prevede la peggiore recessione globale dalla crisi del ‘29 – stima che la crescita in Asia nel 2020 sarà dello zero%, “la peggiore performance di crescita in quasi 60 anni”. Detto questo – scrive nella sua analisi più recente - l'Asia sembra “far meglio” di altre regioni del pianeta. “Le revisioni al ribasso – sostiene il Fmi - sono sostanziali e vanno dal 3,5% nel caso della Corea a oltre 9 punti percentuali nel caso di Australia, Thailandia e Nuova Zelanda”, colpiti dal rallentamento del turismo globale e - nel caso dell'Australia - da prezzi delle materie prime più bassi. Quanto alla Cina, la crescita dovrebbe diminuire dal 6,1% nel 2019 all'1,2 nel 2020, un elemento che non consentirà alla Rpc di “aiutare la crescita dell'Asia” come in passato. C’è però un po’ di luce in fondo al tunnel: “Se le misure di contenimento funzionano, con uno stimolo politico sostanziale per ridurre le "cicatrici", la crescita in Asia dovrebbe riprendersi con forza” mentre l'economia cinese sta “iniziando a tornare al lavoro” (anche se i dati del primo trimestre mostrano una contrazione dell'economia del 6,8%).

Nel suo rapporto sull’economia mondiale, di qualche giorno precedente, il Fondo monetario - di solito piuttosto freddo ai richiami delle esigenze popolari – si è sbilanciato a dire che la fase di recupero dopo un eventuale allentamento del Lockdown globale potrebbe rendere necessaria una proroga della “moratoria sui rimborsi del debito e la ristrutturazione del debito” e che la “cooperazione multilaterale è vitale per la salute della ripresa globale”. Parole certo, ma in un momento difficile per l’Oms, minacciata dalla furia di Trump, Kristalina Georgieva, amministratore delegato dell'Fmi, ha dato il suo appoggio al direttore dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus con una conferenza stampa congiunta in cui ha fatto appello ai leader politici affinché riconoscano che “la protezione della salute pubblica, la protezione dell'economia e il reinserimento lavorativo vanno di pari passo”. Rischia ora di sentirsi dare della filocinese.

Intanto, anche sul fronte del coordinamento e della cooperazione, l’Asia orientale sembra un passo avanti ad altre regioni del pianeta. Mercoledi scorso i leader del cosiddetto Asean Plus Three – un forum che riunisce i dieci Paesi del Sudest asiatico più Corea, Giappone e Cina - hanno tenuto una conferenza virtuale per affrontare il tema Covid-19. Non è la prima, mentre la Cina ha prestato competenze e medici per favorire i vicini e soprattutto non guastare le relazioni coi suoi futuri partner della Via della seta. Che si son ben guardati sinora dal chiamare il Covid-19 “virus di Wuhan”.

Articolo uscito ieri su ilmanifesto

domenica 29 dicembre 2019

Afghanistan, bilancio di fine anno


La mattina del 29 dicembre di quarant'anni fa, l'Afghanistan si svegliò ormai completamente prigioniero dell'Armata rossa che, il giorno prima, aveva completato tutte le operazioni di controllo del regime di Afizullah Amin (che già  il 27 aveva pagato con la vita i dissidi con  Mosca) e che quella mattina aveva annunciato, attraverso Radio Kabul, che il Paese era stato "liberato". Cos resta  dell'avventura bellica iniziata allora e proseguita con un conflitto interno e l'invasione del 2001 è noto. Ma cosa riserva il 2020 agli afgani?
Senza bisogno di fare profezie sul futuro – un mestiere che compete ai meteorologi – è abbastanza evidente che sul risultato finale delle presidenziali afgano si stiano addensando nubi tempestose. Un risultato ancora incerto si accompagna inoltre a un’ennesima stagione di veleni dove accanto alle denunce di frode, che vedono le accuse del dottor Abdullah nutrirsi di altri lai, non si risparmiano colpi bassi. Nemmeno all’alleato maggiore, gli Stati Uniti, accusati ieri pubblicamente dal Consigliere per la sicurezza nazionale Hamdullah Mohib di preoccuparsi più dello scambio di prigionieri occidentali in mano ai talebani che non del futuro degli accordi di pace. Tutto ciò non promette nulla di buono.

A fine settembre del 2014, a sei mesi dal primo turno delle penultime presidenziali, toccò al segretario di Stato Usa John Kerry risolvere le beghe elettorali nate dal primo scontro tra Ghani e Abdullah. Con abilità e fermezza, Kerry – che citò quell’accordo come un esempio di statesmanship and compromise (arte di governo e compromesso) - riuscì a far convergere i due sulla formula di un governo di unità nazionale che prevedeva una divisione dei poteri al 50 per cento tra i due contendenti: l’uno presidente, l'altro “capo dell’esecutivo”, bizzarra figura né premier né vicepresidente e non prevista dal dettato costituzionale afgano. I due, e con loro gli afgani, digerirono. Ma adesso...

Adesso, Ghani e Abdullah sono ancora lì ma al posto di Kerry c’è Mike Pompeo e, al posto di Obama, Donald Trump, un presidente instabile, sotto pressione per l’impeachment e capace di formidabili colpi di testa. Dall’altra parte della barricata ci sono più o meno gli stessi talebani di allora - nella sempre difficile situazione di squilibrio tra le varie fazioni del movimento - e in mezzo ci sono gli afgani, stretti in una miscela di dolorosa disperazione che si è espressa nella ennesima grande illusione del voto. Un voto dove ha elettoralmente parlato una popolazione di meno di due milioni di elettori su 9,7 di aventi diritto. Che equivale a circa la metà degli abitanti di Kabul.

Anche se gli americani appaiono riluttanti a una nuova “soluzione Kerry”, saranno obbligati a prendere il toro per le corna. Gli altri partner della coalizione sono ormai così sfiniti da questa avventura senza fine che il mutismo è la loro condizione ormai abituale. Mentre non è escluso che russi e cinesi, sempre più attenti alle vicenda afgane, si facciano avanti suggerendo una qualche soluzione che raffreddi gli animi.

In tutto ciò la colpa di questi animi surriscaldati è responsabilità anche degli afgani o meglio dell’élite che, col beneplacito degli alleati, governa il Paese da quando lo scettro del comando fu consegnato a Karzai nel dicembre del 2001. Da allora una pedissequa acquiescenza ai nuovi padroni del Paese, unita alla sacra alleanza con gli ex signori della guerra e i sempre attivi signori della terra, ha lavorato soprattutto per spartirsi privilegi e potere ricorrendo tra l’altro al peggiore degli strumenti: quello identitario. Soffiare sul fuoco del nazionalismo pashtun, tagico, hazara – un refrain sul tribalismo che in Occidente ha molti adepti – fa degli afgani un popolo che non merita né attenzione né solidarietà. La responsabilità di questa deriva, alimentata all’occorrenza dai partner americani e della Nato, ricade sui politici afgani. Non certo sulla gran parte della popolazione che, tra l'altro, ha marciato in lungo e in largo per il Paese facendo la richiesta più sensata: far tacere le armi.
Nessuno li ha ascoltati. Né le cancellerie, né i talebani, né il governo di Kabul e neppure la grande stampa. Tutti complici – a diverso titolo – della stessa congiura del silenzio che ha soffocato l’unica vera novità politica innovativa di questi anni.