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mercoledì 18 dicembre 2019

Pena capitale al dittatore pachistano

Pena di morte per Pervez Musharraf dice la sentenza di una corte ad hoc pachistana che mette la parola fine alla lunga vicenda giudiziaria dell’ex dittatore, ex presidente ed ex generale dal 2016 rifugiatosi a Dubai. Pena capitale per alto tradimento – la condanna più grave in un Paese che ha tra l’altro sospeso la moratoria sulle esecuzioni di Stato - per aver sospeso la Costituzione durante gli anni del suo regime. La notizia arriva come una bomba e sembra mettere una pietra tombale sul destino dell’uomo che dal 1999 al 2008 ha retto il Paese. Ma è davvero la parola fine?

L’esecutivo del premier Imran Khan viene in soccorso, sebbene con prudenza, al generale. Il governo pachistano infatti "esaminerà in dettaglio" la decisione della corte le cui motivazioni saranno rese note a breve, come ha spiegato alla stampa l’assistente speciale del primo ministro Imran Khan per l'informazione e la radiodiffusione, Firdous Ashiq Awan.

E’ la prima volta nella storia del Paese che un capo dell’esercito viene dichiarato colpevole di alto tradimento e condannato per questo a morte e non sarebbe evidentemente un bel precedente. Awan ha aggiunto che gli esperti legali analizzeranno tutti gli aspetti legali e politici, nonché l'impatto sugli interessi nazionali, dopo di che una dichiarazione del governo verrà resa nota. E’ un distinguo che fa intravedere il fatto che la parola fine si allontana. Ma c’è di più. La condanna colpisce indirettamente gli uomini in divisa, vero potere neppur troppo occulto del Paese. E infatti i militari prendono subito posizione.

Una dichiarazione dell'Inter-Services Public Relations (Ispr), ala mediatica dell’esercito, dice che "la decisione è stata accolta con molto dolore e angoscia dalle forze armate” i cui alti gradi si sono riuniti nella sede generale di Rawalpindi subito dopo la notizia della sentenza. La dichiarazione porta la firma del generale Asif Ghafoor: “Un capo di stato maggiore e presidente del Pakistan, che ha servito per oltre 40 anni e ha combattuto guerre per la difesa del Paese non può essere un traditore", prosegue la nota aggiungendo critiche all’iter processuale.

I giochi dunque non sono affatto chiusi. Del resto il team legale di Musharraf, malato di cuore, può appellarsi ricorrendo alla Corte Suprema. E se questa confermasse il verdetto della corte speciale, il presidente avrebbe pur sempre l'autorità costituzionale ai sensi dell'articolo 45 per perdonare un imputato nel braccio della morte.

Le accuse a Musharraf riguardano il periodo che va dal 3 novembre al 15 dicembre 2007. In quel pugno di giorni il generale dittatore dichiara lo stato di emergenza e sospende la Costituzione cosa che gli permette di giurare come presidente non eletto. Ma non si ferma lì: per evitare ostacoli imprigiona 61 giudici dei gradi più alti del sistema giudiziario incluso l’uomo che sta all’apice della piramide, il Chief Justice Iftikhar Mohammad Chaudhry, che aveva già sospeso dal servizio ma che un vasto movimento popolare aveva fatto reinsediare. E’ forse il suo scivolone più grosso, un calcolo politico sbagliato che gli mette contro magistrati e società civile già turbati dall’ennesimo golpe militare. Il 2007 è davvero un pessimo anno per il Pakistan che si chiude con l’assassinio di Benazir Bhutto.

La sentenza è forse anche il segnale di un desiderio di autonomia della magistratura e di come debba essere giudicato traditore chiunque violi la Costituzione civile. Concetto che finisce per dire indirettamente che l’epiteto “traditore” si dovrebbe storicamente adottare per tutti i dittatori del Paese dei puri. Passati e futuri. In divisa e non.

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