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giovedì 13 ottobre 2022

Il grande libro degli imperi


La Storia si può raccontare in molti modi: attraverso l’economia, la geografia dei luoghi, i singoli protagonisti, le grandi masse d’urto che sconvolgono lo status quo. Ma si può fare anche una Storia degli imperi raccontandone ascesa e declino, i capitoli secondari e meno noti, le vicende che hanno fatto assurgere piccole nazioni o addirittura piccole società a veri e propri gendarmi del mondo. Tre libri molto diversi tra loro, da poco in libreria, raccontano quattro imperi assai particolari e il loro rapporto con un ex impero sotto aspetti o poco noti e poco indagati.

William Dalrymple, un accademico con una penna felice, spiega in “Anarchia” (Adelphi) l’evoluzione della East India Company (la Compagnia delle Indie orientali britannica), da piccola società mercantile fondata nel 1600 a Londra a “impero nell’impero”: l’investimento iniziale fu di circa 4 milioni delle sterline attuali e dopo 100 anni aveva ancora solo 35 dipendenti fissi nella sede centrale. La società fattasi impero si dissolse nel 1874 preceduta da un primo fallimento economico ripianato dalla Corona nel 1772, in quello che fu il primo grande intervento dello Stato per tentare di salvare col denaro dei cittadini (poveri) le imprese dei mercanti (ricchi). Mercanti che oltre alle attività commerciale muovevano guerra e avevano ancora a inizio ‘800 “una forza armata privata di 200.000 unità, due volte più grande dell’esercito britannico”. La Cio riscuoteva tasse, rapinava raccolti, commerciavano oppio e non fu dunque, come comunemente si crede, “il governo britannico a conquistare l’India ma una società privata meticolosamente non regolamentata, basata in un piccolo ufficio di sole cinque finestre a Londra e gestita in India da un predatore aziendale violento: Robert Clive”.

Se la storia vera della conquista dell’India è poco nota, ancor meno lo è la vicenda che portò l’imperatore tedesco Guglielmo II a dichiarare – o meglio a far dichiarare al sultano ottomano e califfo dell’Islam Mehmet V – una guerra santa in Asia nel 1914 contro gli infedeli che, nella sua smania di espansione imperiale a Est, erano soprattutto inglesi, russi e francesi. Di questo pezzo di Storia, a cavallo del primo conflitto mondiale, si occupa Peter Hopkirk (il famoso autore de “Il Grande Gioco”) in un’opera inedita (in Italia) pubblicata da Settecolori: “Servizi Segreti a Oriente di Costantinopoli”. La tesi di Hopkirk spinge forse fin troppo sul mito del Jihad turco germanico anche se il Kaiser si spacciava, più o meno ufficialmente, per musulmano e l’idea dell’espansione a Oriente è stato un sogno ricorrente nella logica degli imperi occidentali che aveva affascinato anche Hitler. Ma alcuni passaggi del libro, una sorta di spystory condita dalla grande capacità di Hopkirk di disegnarne i protagonisti, fa comunque luce su uno dei capitoli meno noti della Prima guerra mondiale. Le spedizioni “jihadiste” dei tedeschi si spingono sino in Persia e in Afghanistan con l’India come meta, il luogo in cui deve scoppiare l’insurrezione asiatica contro la corona britannica (con la quale il Kaiser era imparentato, essendo un nipote della regina Vittoria, la stessa che liquidò la Cio e pose l’India sotto il diretto dominio di Sua Maestà).

Il capitolo sull’Afghanistan è avvincente: gli inglesi sono così preoccupati della missione tedesca, che lo stesso re Giorgio V scrive una missiva di suo pugno ad Abibullah cui la missione tedesca recava invece una lettera personale del Kaiser e del sultano turco. L’emiro si indispettì perché quella tedesca era “scritta a macchina”. Habibullah “non era un semplice capo tribù da poter abbagliare con delle perline di vetro”, annota il capitano Oskar Niedermayer in uno dei resoconti scovati da Hopkirk. E infatti Kabul si accorda con Londra e molla imperatore e sultano. Una mossa che verrà rimproverata all’emiro anche da suo figlio Amanullah, il re afgano che morirà in Europa, costretto all’esilio a Roma a fine anni Venti proprio dalla potenza dell’Impero britannico.

Se l’impero di Sua Maestà era nato da una consorteria mercantile spietata e corrotta, e se il Jihad di Guglielmo doveva seguire nella disfatta il destino del suo alleato ottomano, un terzo impero, la Cina, resta sempre sullo sfondo, assieme a un piccolo Paese senza sbocco al mare che, a sua volta, era stato un grande impero da cui, in un certo senso, ne era nato un altro: quello dei Moghul in India, distrutto proprio dalla Cio. E’ l’Afghanistan che abbiamo incontrato in diversi libri di Hopkirk. “Nel diciannovesimo secolo, l’Afghanistan si trovò nel bel mezzo del Grande Gioco tra gli imperi inglese e russo. Poi è stato coinvolto nella Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma adesso c’è una nuova rivalità tra imperi tra Stati Uniti e Cina”, scrivono Stanly Johny| e Ananth Krishnan che per il loro saggio hanno scelto un titolo suggestivo: “The Comrades and the Mullahs” (I compagni e i mullah, Cina, Afghanistan e la nuova geopolitica asiatica”, non tradotto).

Il saggio si chiede cosa pensino gli opinionisti di Pechino del futuro dell’Afghanistan e come stia rispondendo la Cina all’exit strategy americana, vista – nella Rpc – “come un altro esempio del declino del potere occidentale”. Ma son felicitazioni accompagnate dalla paura di un vuoto a Kabul che “potrebbe significare per la regione un potenziale di instabilità in grado di oltrepassare il confine tra Afghanistan e Cina”. Dalle celebrazioni alla cautela: “La Cina non vuole ripetere gli errori dell’Occidente e riversare miliardi, per non parlare di metterci gli stivali”. Ciò non di meno, Pechino “è sempre più disposta a inserirsi come un giocatore forte e usa le sue tasche per influenzare il comportamento dei Talebani”, definiti nel saggio “estremisti accettabili”. Tenendoli a bada con la promessa di investimenti e aiutata dal Pakistan, “la Cina non solo si è assicurata il silenzio dei Talebani su questioni come lo Xinjiang e il trattamento riservato ai musulmani, ma ha ricevuto l’impegno a tagliare ogni legame con l’East Turkestan Islamic Movement”. Tuttavia, avvertono, tutto ciò è per ora solo sulla carta. Del resto la Storia degli imperi (e dei piccoli Stati) non smetterà mai di sorprenderci. Fuori e dentro la carta.


In alto: Shah Shuja Shah Durrani imposto dagli inglesi in Afghanistan. Anche Habibullah Khan si mise d'accordo con la Corona britannica

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