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venerdì 14 marzo 2008

RIFLESSIONI SULLE PROTESTE A LHASA

Le notizie che giungono dalla capitale tibetana parlano di diversi morti e feriti e di una città a ferro e fuoco. Una sorta di punto di non ritorno dopo decenni di acquiescenza e tentativo di dialogo con Pechino. Cosa è cambiato? Perché è esplosa una violenza spontanea nel popolo pacifico per antonomasia? Qualche ipotesi
venerdi 14 marzo 2008

Si racconta che quando l'esercito popolare cinese entrò a Lhasa per occupare il Tibet, i suoi generali chiesero all'allora giovanissimo Dalai Lama (classe 1935) di presentarsi per parlamentare. Tenzin Gyatso decise che sarebbe andato ma il suo popolo occupò le strade impedendo fisicamente al XIV Dalai Lama di andare molto probabilmente a finire i suoi anni in una prigione di Pechino. Gente poco violenta per natura e tradizioni, i tibetani ebbero un sussulto nel 1959 quando tentarono una sollevazione immediatamente repressa e in seguito alla quale il Dalai Lama varcò le montagne per stabilirsi in India, dove i tibetani ricostruirono a Dharamsala una sorta di piccolo Tibet in esilio, in un paesaggio che ricordava loro le stesse vette che si potevano ammirare da Lhasa.
E' per ricordare quella sollevazione che in questi giorni in Tibet e in India si è tornati nelle piazze. In realtà da allora, sino praticamente ai giorni scorsi, i tibetani se ne sono stati abbastanza buoni, tenuti calmi dallo stesso Dalai Lama diventato un raffinato diplomatico la cui prima preoccupazione era di evitare che nel suo paese la sottomissione a Pechino generasse un movimento armato e il ricorso alla violenza. Ha scelto sempre le armi del negoziato il Dalai Lama tanto da attirarsi anche qualche critica. Ma ha evitato il peggio. Un peggio sempre in agguato e che ieri si è manifestato nella sua brutalità in una capitale attraversata dalle notizie della morte di alcuni manifestanti e colorata dal rosso degli incendi e dal blu delle divise delle squadre cinesi anti sommossa opposte alle vesti color porpora dei monaci. Spari ma anche auto e negozi cinesi dati alle fiamme. Incidenti con la comunità muslmana. Monaci arrestati e picchiati ma anche gente comune che si è unita a una protesta che dilaga, in modo spontaneo, senza una guida apparente e che, secondo gli osservatori, è la più massiccia da quel marzo del 1959 di cui ricorre quest'anno il 49mo anniversario. Notizie che colpiscono due volte non solo perché le proteste a Lhasa sono rare (in realtà hanno coinvolto anche altre città) ma proprio perché questo tipo di reazione non è mai stata la scelta della leadership tibetana in esilio. Qualcosa è successo. Qualche punto di non ritorno è stato oltrepassato. Il tappo è saltato sul “Tetto del mondo”, un pianeta del quale pochissimo sappiamo o possiamo sapere. Ancor meno della Birmania dove, bene o male, qualche turista o qualche diplomatico, qualche giornalista camuffato (come il povero fotografo giapponese che ha pagato con la vita) riescono a circolare. In Tibet è diverso. E' un mondo sigillato e afono se non fosse per quanto fa e dice la diaspora all'estro, soprattutto in India dove conta 120mila rifugiati.
Negli anni infatti l'India è diventata la sede del governo tibetano in esilio, che si trova a qualche chilometro da Dharamsala, nel villaggio di McLeod Ganji. Ci si arriva in autobus inerpicandosi sulle strade dell'Himachal Pradesh, circondate da campi verdissimi, boschi e vette innevate. Per l'India ospitare il Dali Lama non fu soltanto una scelta obbligata dalla vicinanza geografica o dalle ragioni dell'etica. Per Nuova Delhi, l'invasione cinese degli anni Cinquanta e la dura repressione che ne seguì, la distruzione sistematica del patrimonio culturale, dell'ambiente e della civiltà tibetana erano da condannare soprattutto perché la mano che schiacciava il sasso era quella della Cina. Per Indira Gandhi, non meno che per i suoi successori, il villaggetto di McLeod Ganji e gli insediamenti tibetani sparsi in territorio indiano, erano una spina nel fianco di Pechino. Negli ultimi anni qualcosa però è cambiato. I tibetani possono contare su un minor appoggio di Delhi che, qualche anno fa, ha scambiato il riconoscimento cinese del Sikkim per il riconoscimento indiano del Tibet come rispettive appartenenze statuali. Ragion di stato. Uno schiaffo a Tenzin Gyatso molto simile a quello che la democrazia indiana ha regalato ad Aung San Suu Kyi quando ha deciso di ricevere a Nuova Delhi il capo della giunta birmana per fare affari con lui. Le cose si sono complicate. I tibetani possono contare sull'appoggio degli Stati Uniti, almeno sino a quando i rapporti con Pechino continueranno ad essere tesi, ma non già su quello di diversi governi occidentali, tra cui l'Italia se si pensa alla polemica seguita al recente viaggio italiano del Dalai Lama che Prodi non ha voluto ricevere. Come ugualmente ha fatto Benedetto XVI. Ragioni di stato.
E' a questa congiuntura internazionale che bisogna dunque guardare osservando, per quel che possiamo, ciò che avviene a Lhasa in queste ore dove la ricorrenza del marzo del 1959, che segnò la rivolta contro Pechino quanto l'esilio del Dalai Lama, ha dato la stura alle proteste alle quali la Cina, conscia di avere gli occhi addosso e tremebonda per il futuro delle Olimpiadi, ha aspettato a reagire duramente sino a ieri. Stura a proteste che vanno più in là della compassionevole diplomazia del XIV Dalai Lama. In sempre più seria difficoltà e forse sempre meno compresa nella vita quotidiana di tutti i giorni sul Tetto del mondo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

sono d'accordo il dalai è stato lasciato solo