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giovedì 20 marzo 2008

TIBET, LA SVOLTA DI GORDON BROWN

Un'immagine dalla manifestazione per il Tibet di ieri a Roma in Campo de' fiori

“La situazione è davvero tesa e si sente una pesante presenza militare. Vedo numerosi convogli dell'esercito dirigersi verso Lhasa...”. Passando attraverso le maglie della censura le testimonianze filtrano continuamente dal paese che non c'è. Quest'ultima, rigorosamente anonima e arrivata al servizio e-mail della Bbc, conferma quanto raccontano altre fonti tibetane: “movimenti di truppe” che dicono non soltanto dei timori di Pechino su una protesta tutt'altro che spenta, ma anche il fatto che la rivolta continua, seppur con forme diverse e del tutto spontanee. Gansu, Hezuo,Sichuan, Aba, Qinghai sono i nomi di un nuovo dizionario geografico che abbiamo imparato in questi giorni. Sono i toponimi delle provincie cinesi in cui l'amministrazione imperiale di Pechino ha diviso il Tibet storico oltre la provincia autonoma propriamente detta e sono i luoghi, le località, i monasteri dove la protesta non si ferma. Circolano filmati con cavalieri tibetani che sembrano usciti da un vecchio film, studenti e maestri che strappano bandiere cinesi e innalzano la colorata tela con le insegne tibetane, cortei spontanei, monaci che mostrano i pugni...Girano le fotografie sui siti del dissenso: corpi ammassati, fori di proiettile nella carne dei cadaveri, sfregi, sangue. E' la ritualità macabra della morte che riesce a uscire dal paese delle nevi perenni e che racconta quello che non abbiamo visto 49 anni fa, nel 1959, o durante la repressione dell'88-'89.
Queste immagini devono aver visto anche Gordon Brown e il Pontefice, i protagonisti politici – col Dalai Lama e Wen Jabao - della giornata di ieri. E mentre Benedetto XVI trovava il coraggio di dire le parole che tutti si aspettavano da lui - e che si sono concluse con un appello al negoziato - che con il Dalai Lama condivide il peso di orientare le coscienze dei fedeli, il primo ministro britannico telefonava a Wen Jabao. Mosso forse anche dalle tante iniziative della società civile, dalle parole sempre più forti che qualche leader ha iniziato a pronunciare, dalle iniziative che qualche cancelleria ha preso (l'Italia ponendo sul piatto la missione della troika Ue in Tibet) il premier britannico è riuscito a scucire all'omologo cinese una prima disponibilità: la disponibilità ad avere colloqui con il Dalai Lama. Con delle condizioni, certo, ma se resta confermato quanto riferito da Gordon Brown, prima in parlamento e poi parlando coi giornalisti, quella di ieri diventa le prima svolta considerevole dopo il profluvio di insulti inoltrati dallo stesso Wen alla “cricca” del Dalai Lama.
Il primo ministro del Regno Unito – riferiscono le agenzie - aveva detto ieri nel corso del question time ai Comuni che avrebbe incontrato il Dalai Lama in maggio durante la visita prevista per allora da Sua santità a Londra. Decisione comunicata a Wen in mattinata e alla quale Brown aveva aggiunto le sue raccomandazioni dicendogli “chiaramente” che le violenze in Tibet devono cessare immediatamente, anche se il rapporto con la Cina è vitale per Londra. Brown ha poi rivelato che nel corso della sua conversazione telefonica il leader cinese si è detto disposto a colloqui con il Dalai Lama, ma ponendo precise condizioni: “a patto che vengano confermate due cose che il Dalai Lama ha già detto, ovvero che egli non sostiene la piena indipendenza del Tibet e che dice no alla violenza”. Gli Stati Uniti hanno subito commentato favorevolmente l'apertura.
Dal suo esilio di Dharamsala, nel Nord dell'India, il Dalai Lama ha intanto proposto ai cinesi di riprendere il dialogo sospeso da quasi due anni e ha poi chiesto agli organizzatori della marcia tibetana verso la frontiera indo-cinese di sospenderla, come ha riferito Sergio D'Elia, tornato ieri dall'India per presenziare alla convocazione delle commissioni esteri di Camera e Senato riunite su sua richiesta ieri mattina.
Mentre la diplomazia dunque batte un colpo sarebbero intanto 160 le persone che si sono consegnate alle forze di sicurezza a Lhasa, prima della scadenza dell'ultimatum fissato per la mezzanotte di lunedì 17 marzo. Ora la preoccupazione è quel che succederà agli arrestati. Le notizie che provengono da Lhasa non sono affatto rassicuranti ma il fatto che la comunità internazionale si stia muovendo forse può aiutare a cambiare le cose. E a proteggere dunque anche il loro incerto destino.
(Questo articolo è uscito oggi anche su Il Riformista)

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