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giovedì 9 giugno 2022

Un tempo in Cina (di Danilo De Marco)

                       

Per gentile concessione dell'autore pubblico il mio  contributo scritto per l'ultimo libro fotografico di Danilo De Marco "Un tempo in Cina". 

Le foto che illustrano il testo sono tratte dal volume che si può ordinare qui


Il marzo del 2008 sul ‘Tetto del Mondo’ e tutto è pronto: è pronto nella capitale Lhasa, nei piccoli villaggi sparsi sulle nevi del Tibet, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell’India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama nella sede del governo in esilio. Tutto è pronto per ricordare l’anniversario del 1959 che ha segnato la fine definitiva di ogni speranza di indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di una rivolta che si è opposta all’occupazione militare da parte della Cina che aveva invaso la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, aveva chiuso definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai doveva diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio verrà frazionato tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan, mentre ciò che resta diventerà nel 1965 la Regione Autonoma del Tibet, un’area della Repubblica Popolare Cinese a statuto speciale.

Nel 2008, però, c’è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa per commemorare la rivolta del ’59’. È un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L’occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati sulla Cina proprio per via dei Giochi. È il momento giusto per ricordare cosa è successo nell’ottobre del 1950 quando l’Esercito popolare di liberazione ha attraversato il fiume Jinsha e sconfitto in due settimane l’esercito tibetano. È il momento giusto, soprattutto, per ricordare il marzo del 1959 e la grande rivolta durante la quale lo stesso Dalai Lama, allora ventitreenne, dovette fuggire in India.

Ma è una storia che, anche questa volta, finisce male. Come la rivolta del 1959, repressa nel sangue e conclusasi allora con una strage dal bilancio incerto e stimata dai tibetani in ottantasettemila vittime. L’anniversario del 10 marzo 1959, celebrato ogni anno ma in modo particolare questa volta, segnerà nel 2008 l’ultimo grande tentativo di ricordare al mondo il destino di un popolo. Accompagnata da marce di protesta e cortei anche in Tibet, «Lhasa, quasi completamente circondata dalle forze dell’ordine», scrive Junko Terao in Tibet. Lotta e compassione sul Tetto del Mondo 1 , «è una pentola a pressione e venerdì 14 la situazione precipita. I civili scendono in strada a gonfiare i cortei e la protesta si trasforma in una vera sommossa anticinese. Negozi presi d’assalto, auto incendiate e mercato in fiamme: si tratta del più grande movimento di protesta degli ultimi vent’anni nella regione. Si diffondono voci di lotte tra tibetani e cinesi e i residenti Han, il gruppo etnico maggioritario in Cina, si barricano in casa. La polizia spara sulla folla e fa le prime vittime. I monasteri di Drepung, Sera e Ganden vengono chiusi e circondati dalle truppe cinesi, mentre nei pressi del mercato vicino al tempio di Jokhang un migliaio di poliziotti si scontra con quattrocento manifestanti. È iniziata la repressione».... continua su atlanteguerre




venerdì 25 marzo 2016

La fine del Tibet nel 1959 (wikiradio)

Bandiera tibetana utilizzata dall'esilio
Nel marzo del 2008 è tutto pronto. A Lhasa, capitale del Tibet, nei piccoli
villaggi sparsi sul Tetto del Mondo, in Nepal dove vivono migliaia di esuli tibetani e a Dharamsala, la città dell'India settentrionale dove, dal 1959, vive il Dalai Lama e ha sede il governo tibetano in esilio. Nel marzo del 2008, tutto è pronto proprio per ricordare quel 1959 che ha segnato la fine dell'indipendenza tibetana. Tutto è pronto per ricordare il dramma di chi si è opposto all'occupazione militare della Cina che ha occupato la regione nel 1950 e che, nel giro di due settimane, chiuderà definitivamente il caso Tibet, sciogliendone il governo e assumendo il totale controllo di quella che ormai si appresta a diventare Cina a tutti gli effetti. Il suo territorio viene frazionato dai cinesi tra le province del Qinghai, del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan mentre ciò che resta diventa nel 1964 la Regione Autonoma del Tibet, una provincia della Cina a statuto speciale. Nel 2008 però c'è ancora chi non vuole dimenticare: chi è pronto persino a una marcia su Lhasa. E' un gruppo di monaci che parte da Dharamsala e che conta di arrivare nella capitale tibetana nel momento in cui a Pechino cominceranno le Olimpiadi. L'occasione è ghiotta. Gli occhi del mondo sono puntati su Pechino. E' il momento di ricordare cosa è successo nel marzo del 1959, in quelle due settimane maledette tra il 17 e il 28, quando la Cina si è mangiata il Tibet e il Dalai Lama è dovuto fuggire in India.

E' una storia che finisce male. Che sembra ripercorrere, nel sangue e nel dolore, quel marzo del 1959.

sabato 7 settembre 2013

VIAGGIO ALL'EDEN 8 / VERSO KATHMANDU


India2: il sogno dei profughi tibetani. Viaggio a Dharamsala città di cani, scimmie e rifugiati. L'Oceano di saggezza e gli accordi tra Pechino e Delhi. Santi e santoni a Rishikesh. Ritorno alla capitale: a Chandni Chowk nell'inferno del Crown Hotel

Una delle mete laterali che si potevano scegliere da Delhi prima di avventurarsi nel viaggio verso Kathmandu, obiettivo ultimo del “Viaggio all'Eden” degli anni Settanta, era un paesino himalayano che si chiama McLeod Ganj, in onore di Sir Donald Friell McLeod. E' un sobborgo di Dharamsala, cittadina dell'Himachal Pradesh indiano che non fa 20mila abitanti è che è la sede del governo tibetano in esilio. A McLeod invece risiede il XIVmo Dalai lama. Ci si poteva andare benissimo da Amritsar, magari con un breve passaggio da Chandigarh – la città utopica di Le Corbusier – altrimenti da Delhi, crocevia delle varie spedizioni nella Grande Madre India. A Delhi si prende un treno sino a Pathankot, dove un altro convoglio overnight per il Nord si muove lungo chiassose stazioni punjabi, attraversate dai rituali richiami dei venditori di tè al cardamomo serviti (allora) in piccole tazze di creta, accompagnate da dolcetti di latte o pastelle fritte accovacciate in larghe foglie ricurve e cucite con filo vegetale (oggi l'ecologica ferramenta è stata sostituita da sacchettini di plastica azzurra). Da lì, attraverso un paesaggio che si snoda tra campi sempre più verdi circondati da foreste e vallate, si sale in autobus sino a Dharamsala e, infine, al piccolo paesino di McLeod Ganj dove, in un'urbanistica disomogenea e improvvisata, si affastellano i dettagli di un piccolo Tibet ricostruito in modo raffazzonato e miscelato all'architettura tipica delle cittadine indiane. La chiamano la “piccola Lhasa”.

segue in un libro di prossima pubblicazione

martedì 10 marzo 2009

LA SOLITUDINE DEL LAMA

La prova del fuoco avviene nella seconda metà di novembre dell'anno scorso. Lo scenario: Dharamsala, Nord dell'India. La platea: oltre seicento tra monaci, parlamentari, ex ministri, associazioni e altre figure chiave dell’amministrazione tibetana in esilio. Sostenitori del ruolo di Oceano di Saggezza ma anche dissidenti. Più o meno radicali. Il nodo: capire se il Dalai Lama è ancora il leader, oltreché spirituale, anche politico di un movimento che conta centinaia di migliaia di aderenti e, tra i non tibetani, forse milioni di sostenitori. Che scalpitano.

Ormai non è più un mistero che all'interno del movimento tibetano dell'esilio, almeno cinque organizzazioni “giovanili” (Tibetan Youth Congress, Tibetan Women's Association , Gu-Chu-Sum Movement of Tibet , National Democratic Party of Tibet e Students for a Free Tibet) abbiano raccolto le primigenie rivendicazioni della diaspora ma soprattutto le indicazioni che vengono da oltre la “cortina di bambù”, dietro alla quale è sigillato il Tibet storico. Sono queste nuove associazioni gli organizzatori e il motore principale della “Marcia” che, nel marzo scorso, incendia letteralmente la regione autonoma. Una marcia verso il Tibet la cui partenza è fissata proprio da Dharamsala. Uno schiaffo politico al Dalai Lama, prima ancora che ai cinesi.

Durante i moti del marzo 2008, che si estendono a macchia d'olio nello stesso Tibet ma anche in India, in Nepal e in numerose capitali europee o nelle principali città americane, diventa manifesta quella che è stata chiamata la “solitudine del Dalai Lama”, un uomo la cui “Via di mezzo”, infarcita di cautele e – dicono i suoi detrattori - improvvide aperture ai cinesi, sta costando cara....Continua, con altri servizi sul Tibet, su Lettera22

giovedì 7 agosto 2008

OLIMPIADI, TORNA DI SCENA LA QUESTIONE TIBETANA



A sinistra la foto, tratta dal sito dell'emittente Abc, della protesta di ieri mattina a Pechino

Sono le cinque e mezzo del mattino a Pechino quando quattro attivisti filotibetani (due britannici e due americani) guadagnano la piazza antistante il nuovo stadio a nido tutto lustrini per l'apertura dei Giochi olimpici. Si arrampicano, in due, su un alto palo della luce e vi appendono due striscioni con scritto, sia in inglese sia in cinese, “One World One Dream / Free Tibet” e “Tibet Will Be Free”, il sogno della libertà dell'identità tibetana.
Protesta silenziosa e di breve durata. I quattro sapevano che sarebbero stati arrestati ma hanno voluto correre il rischio. In tutto dieci minuti. Mentre uno dei due aderenti al movimento Students for a Free Tibet, che si dichiara “Ian di Edinburgo”, parla al telefono con l'emittente Abc spiegando che gli attivisti sono entrati in Cina con visto turistico, arriva la polizia. Il fermo avviene senza incidenti e gli striscioni vengono rimossi. Poco dopo un portavoce del Comitato organizzatore spiega che la Cina ha le sue regole. Che in questi giorni seguono ovunque un diktat: “non politicizzare i Giochi”. Una speranza che si sta dimostrando vana.
Il clima a Pechino è quello di un coprifuoco che non si manifesta come tale ma che si dovrebbe nutrire per tutta la durata delle Olimpiadi di circa 100mila agenti anti terrorismo, mentre la polizia già occupa i punti strategici, gli angoli delle strade, i tetti degli edifici. E i passeggeri di metrò o i visitatori degli edifici “sensibili” vengono minuziosamente perquisiti. Incombe il Tibet ma, ancor di più, qualche possibile nuova sorpresa uigura dopo lo smacco di tre giorni fa quando due attentatori, stando alla versione ufficiale, hanno ucciso in un solo colpo 16 poliziotti e ne hanno mandati altrettanti all'ospedale di Kashgar, nello Xinjiang.
Intanto a Pechino è arrivata la torcia olimpica. La fiaccola, portata nel centro della capitale dal campione di basket Yao Ming, ha viaggiato per 140mila chilometri e attraversato il pianeta da quando, il 24 marzo scorso, partì da Olimpia, la città greca che è un po' la madre di tutte le Olimpiadi: come i lettori ricorderanno, fu una partenza “funestata” dalla prima evidente protesta mediatica dopo i fatti di Lhasa di qualche settimana prima. Alcuni attivisti di Reporter senza frontiere apparvero alle spalle degli organizzatori sventolando una bandiera con i cerchi olimpici sotto forma di manette, logo diventato l'emblema della politicizzazione dei Giochi. Ma in seguito, dopo la dura repressione dei moti tibetani e il pungo di ferro anche con i manifestanti in India, Nepal e nelle città europee, la vicenda tibetana si era un po' assopita. Anche i colloqui tra le autorità di Pechino e gli emissari del Dalai lama non hanno portato a molto. Il gesto degli attivisti di ieri mattina ha rilanciato la polemica.
In Asia in realtà la cosa è andata avanti nonostante le notizie dal continente sulle proteste filotibetane non siano più state ritenute degne dei riflettori della cronaca. In India soprattutto, dove per oggi la Tibetan Youth Congress ha organizzato una nuova manifestazione di protesta. Da Dharamsala fanno sapere che Lhasa sarebbe sotto una sorta di stato d'assedio con un massiccio controllo poliziesco e che anche in India le forze di sicurezza non scherzano. Fonti locali fanno sapere che il poeta e attivista tibetano Tenzin Tsundue è stato arrestato qualche giorno fa mentre cercava di raggiungere una settantina di tibetani diretti verso il confine sino-indiano. Decine di marciatori sarebbero stati arrestati e detenuti nelle località di Manali e Bhuntar. Tra di loro anche lama Shingza Rinpoche, originario dell'Amdo, e considerato uno dei principali maestri spirituali della diaspora. Tutti gli arrestati avrebbero iniziato uno sciopero della fame e della sete mentre a Delhi si sono aggravate le condizioni di salute dei sei militanti della Tibetan Youth Congress che sono in sciopero della fame dalla fine luglio. Ma sempre da Dharamsala il Dali Lama getta acqua sul fuoco: “Vorrei porgere i miei auguri alla Cina, agli organizzatori ed agli atleti. Rivolgo le mie preghiere per il successo dell'evento”.

sabato 21 giugno 2008

PASSAGGIO IN TIBET




"Proteggi l'ordine sociale e la stabilità” oppure “Festeggia i Giochi Olimpici armoniosamente”. Sono alcune delle scritte con cui il Governatorato di Lhasa ha riempito i muri di una città blindata dove di armonioso e ordinato c'è soprattutto un imponente schieramento di truppe che, riferisce il sito del Tibetan Centre for Human Rights and Democracy, controlla le principali arterie con un poliziotto ogni duecento metri.

Non si aspetta un capo di stato sotto tiro e nemmeno si prepara un summit internazionale. L'oggetto del contendere è il bastoncino fiammeggiante simbolo delle Olimpiadi. Quello stesso che, partito da Olimpia con una sonora contestazione di Reporter senza frontiere, dovrebbe arrivare oggi nella capitale tibetana. Marcia rinviata rispetto alla data originaria e la cui versione ridotta vedrebbe la torcia simbolo di tutti gli sport passare in territorio tibetano per un solo giorno. Con un condizionale che resterà d'obbligo sino all'ultimo minuto anche se appare davvero improbabile che i cinesi optino per una soluzione ancora più drastica. Comunque, gli spettatori per il passaggio della torcia dovranno avere un lasciapassare.
La prova generale è stata già fatta del resto qualche giorno fa a Kashgar, città dello Xinjang cinese popolata, oltre che dagli echi della millenaria epopea della Via della seta, da comunità musulmane non Han (gli uigiuri) che mal digeriscono la mano pesante di Pechino. Ma a a Kashgar, deserta forse più per scelta dei locali che non per le durissime misure di sicurezza, non è successo nulla. Non si sono palesati gli oscuri terroristi del Jihad declinato in ideogrammi arabizzati e agitato da Pechino come un incubo da tenere lontano dai sacri giochi. E dunque le autorità cinesi devono aver pensato che comunque un passaggio a Lhasa valesse bene il rischio di una possibile e non ancora del tutto esclusa protesta tibetana. Non esclusa ma difficile. Le notizie che filtrano dal Paese delle nevi dicono che i monasteri sono sotto controllo quando non sigillati, che molti monaci soggiornano in galera e che persino i pastori nomadi vengono deportati mentre corre voce di nuove misure di "pianificazione familiare" con il dichiarato intento di ridurre ancor più la presenza demografica degli autoctoni.
A seguire l'evento ci saranno comunque una trentina di giornalisti e dunque qualche notizia in più da Lhasa sarà possibile ottenerla, sempre che il viaggio rigidamente embedded consenta di dare un'occhiata in giro. La scommessa per i cinesi è troppo alta e anche se al momento la tempesta politica sembra brillantemente superata, Pechino teme sempre che qualche scintilla possa – per dirla con Mao Zedong – incendiare la prateria. Ridestando dal sonno media e soprattutto governi che, passata la bufera di marzo, sembrano ormai decisi a dimenticare almeno per un po' la “questione tibetana”.
Ma se i governi, compreso quello italiano, appaiono sprofondati nel torpore (che in questi giorni il radicale Matteo Mecacci ha tentato di squassare con una lettera a Berlusconi firmata da una quarantina di parlamentari “trasversali” per invitarlo a prendere posizione sulla cerimonia di apertura), la società civile, altrettanto trasversalmente, continua a stare sveglia. In India e in Nepal soprattutto, ma anche in Italia, dove ieri si è svolto un sit in dell'Associazione Comuni Province Regioni per il Tibet, o nel Regno Unito dove per sabato è fissata una manifestazione all'ambasciata cinese di Londra .
Ma le proteste maggiori si svolgono in India e in Nepal. Nel paese dove è stata appena abolita la monarchia, il nuovo governo non si sta dimostrando tenero con i tibetani: circa settecento dimostranti sono stati arrestati nella capitale per aver “intralciato il traffico e i lavori dell'ambasciata cinese” con una manifestazione di cui riferiva ieri l'agenzia di stampa cinese Xinhuà. In India invece, gli utlimi arresti sono di due tibetani dell'esilio che avevano tentato di attraversare il confine nella zona del Shipkila Pass,Himachal Pradesh. E due giorni prima era toccato a una cinquantina di tibetani, fermati dalle autorità indiane mentre arrivavano a Dharchula, l'ultima città prima del confine indo-tibetano. C'erano duecento poliziotti ad aspettarli mentre i marciatori arrivavano a gruppi di quattro.

lunedì 12 maggio 2008

LONTANO DAL TIBET (Letture vivamente consigliate)



Gli storici raccontano il passato, gli scrittori lo narrano e i giornalisti lo rendono in genere più digeribile. Ma è piuttosto raro che un saggio raccolga tutti questi elementi: il rigore, il piacere della bella scrittura, la capacità divulgativa di una narrazione piana. Riesce a farlo magistralmente Carlo Buldrini, da trent'anni in India, nel raccontare il Tibet attraverso il racconto dei superstiti del genocidio culturale, fuggiti a Dharamsala o nel Sud dell'Unione indiana a partire dal 1959 quando il Dalai Lama, per primo, dovette scappare. Ricostruisce il paese che non c'è senza nulla concedere ai cinesi, di cui “Lontano dal Tibet” racconta le nefandezze articolate nella metodica distruzione della cultura tibetana, ma nemmeno al mito di Shangri-la o del monaco pacifico (narra episodi di violenza monacale o il terribile “sciopero della fame sino alla morte” del 1998). Buldrini da voce ai tibetani “lontani”: la dottoressa Lobsang Dolma, che fece uscire anche i segreti della medicina tibetana, il martire Thupten Ngodup che si lasciò morire dandosi fuoco, il Dalai lama che continua a credere nella compassione. La stessa che attraversa tutto il libro.

LONTANO DAL TIBET di Carlo Buldrini, Storie da una nazione in esilio, Lindau 2007,
pp 257, euro 22

Questa recensione è stata pubblicato anche sul Diario in edicola

lunedì 5 maggio 2008

PICCOLA PUBBLICITA'


Dal 7 maggio in edicola con IL Riformista una raccolta di saggi curata da Lettera22

TIBET, LOTTA E COMPASSIONE SUL TETTO DEL MONDO

Nel marzo del 2008 scoppia a Lhasa una rivolta duramente repressa da Pechino che si appresta a inaugurare le Olimpiadi. Non è la prima sommossa nel Paese delle nevi, occupato nel 1950 dai cinesi, ma questa volta tutti i riflettori sono accesi su una zona del mondo che diplomazia e geopolitica hanno relegato al crudo silenzio di una repressione feroce divenuta, nelle parole del Dalai Lama, “genocidio culturale”. Questa raccolta di saggi, curata da Lettera22 per Il Riformista, comprende contributi di Carlo Buldrini, Emanuele Giordana, Junko Terao, Ilaria Maria Sala, Piero Verni e ripercorre storia, difficoltà politiche e controversie internazionali in un lungo reportage sul Tetto del mondo

Il saggio viene presentato il 5 maggio alla Camera




COLLOQUI IN DATA DA DESTINARSI






Corre veloce in Cina la fiaccola olimpica. “Divisa” in due per motivi tecnico-logistici, una torcia corre lungo la pianure alluvionali e l'altra per le montagne dell'Everest. Nessuna contestazione in vista e anzi, se i tibetani hanno Richard Geere, la Repubblica popolare ha Jackie Chan, uno degli oltre duecento tedofori che ieri hanno “armoniosamente” accompagnato la fiamma olimpica sulla strada maestra che la porterà a Pechino. Appuntamento l'8 agosto. Unica incognita, il passaggio tibetano, la tappa che preoccupa maggiormente il sonno dei dirigenti cinesi.
Grande festa dunque per la lunga marcia della torcia. Gran segreto invece, e silenzio stampa, sui colloqui svoltisi ieri a Shenzen, la città industriale del Sud dove i due emissari del Dalai Lama - Lodi Gyari and Kelsang Gyaltsen - hanno incontrato i due responsabili dell'Ufficio per il Fronte unito (l'organismo della Rpc responsabile per i rapporti con i gruppi non comunisti). Sono due facce note: il cinese Zhu Weiqun e il tibetano Sitar...



giovedì 20 marzo 2008

TIBET, LA SVOLTA DI GORDON BROWN

Un'immagine dalla manifestazione per il Tibet di ieri a Roma in Campo de' fiori

“La situazione è davvero tesa e si sente una pesante presenza militare. Vedo numerosi convogli dell'esercito dirigersi verso Lhasa...”. Passando attraverso le maglie della censura le testimonianze filtrano continuamente dal paese che non c'è. Quest'ultima, rigorosamente anonima e arrivata al servizio e-mail della Bbc, conferma quanto raccontano altre fonti tibetane: “movimenti di truppe” che dicono non soltanto dei timori di Pechino su una protesta tutt'altro che spenta, ma anche il fatto che la rivolta continua, seppur con forme diverse e del tutto spontanee. Gansu, Hezuo,Sichuan, Aba, Qinghai sono i nomi di un nuovo dizionario geografico che abbiamo imparato in questi giorni. Sono i toponimi delle provincie cinesi in cui l'amministrazione imperiale di Pechino ha diviso il Tibet storico oltre la provincia autonoma propriamente detta e sono i luoghi, le località, i monasteri dove la protesta non si ferma. Circolano filmati con cavalieri tibetani che sembrano usciti da un vecchio film, studenti e maestri che strappano bandiere cinesi e innalzano la colorata tela con le insegne tibetane, cortei spontanei, monaci che mostrano i pugni...Girano le fotografie sui siti del dissenso: corpi ammassati, fori di proiettile nella carne dei cadaveri, sfregi, sangue. E' la ritualità macabra della morte che riesce a uscire dal paese delle nevi perenni e che racconta quello che non abbiamo visto 49 anni fa, nel 1959, o durante la repressione dell'88-'89.
Queste immagini devono aver visto anche Gordon Brown e il Pontefice, i protagonisti politici – col Dalai Lama e Wen Jabao - della giornata di ieri. E mentre Benedetto XVI trovava il coraggio di dire le parole che tutti si aspettavano da lui - e che si sono concluse con un appello al negoziato - che con il Dalai Lama condivide il peso di orientare le coscienze dei fedeli, il primo ministro britannico telefonava a Wen Jabao. Mosso forse anche dalle tante iniziative della società civile, dalle parole sempre più forti che qualche leader ha iniziato a pronunciare, dalle iniziative che qualche cancelleria ha preso (l'Italia ponendo sul piatto la missione della troika Ue in Tibet) il premier britannico è riuscito a scucire all'omologo cinese una prima disponibilità: la disponibilità ad avere colloqui con il Dalai Lama. Con delle condizioni, certo, ma se resta confermato quanto riferito da Gordon Brown, prima in parlamento e poi parlando coi giornalisti, quella di ieri diventa le prima svolta considerevole dopo il profluvio di insulti inoltrati dallo stesso Wen alla “cricca” del Dalai Lama.
Il primo ministro del Regno Unito – riferiscono le agenzie - aveva detto ieri nel corso del question time ai Comuni che avrebbe incontrato il Dalai Lama in maggio durante la visita prevista per allora da Sua santità a Londra. Decisione comunicata a Wen in mattinata e alla quale Brown aveva aggiunto le sue raccomandazioni dicendogli “chiaramente” che le violenze in Tibet devono cessare immediatamente, anche se il rapporto con la Cina è vitale per Londra. Brown ha poi rivelato che nel corso della sua conversazione telefonica il leader cinese si è detto disposto a colloqui con il Dalai Lama, ma ponendo precise condizioni: “a patto che vengano confermate due cose che il Dalai Lama ha già detto, ovvero che egli non sostiene la piena indipendenza del Tibet e che dice no alla violenza”. Gli Stati Uniti hanno subito commentato favorevolmente l'apertura.
Dal suo esilio di Dharamsala, nel Nord dell'India, il Dalai Lama ha intanto proposto ai cinesi di riprendere il dialogo sospeso da quasi due anni e ha poi chiesto agli organizzatori della marcia tibetana verso la frontiera indo-cinese di sospenderla, come ha riferito Sergio D'Elia, tornato ieri dall'India per presenziare alla convocazione delle commissioni esteri di Camera e Senato riunite su sua richiesta ieri mattina.
Mentre la diplomazia dunque batte un colpo sarebbero intanto 160 le persone che si sono consegnate alle forze di sicurezza a Lhasa, prima della scadenza dell'ultimatum fissato per la mezzanotte di lunedì 17 marzo. Ora la preoccupazione è quel che succederà agli arrestati. Le notizie che provengono da Lhasa non sono affatto rassicuranti ma il fatto che la comunità internazionale si stia muovendo forse può aiutare a cambiare le cose. E a proteggere dunque anche il loro incerto destino.
(Questo articolo è uscito oggi anche su Il Riformista)