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sabato 16 agosto 2008

LA GUERRA E LA CITTA'



Anche le tre operatrici umanitarie uccise l'altro ieri a Logar (i talebani hanno però smentito di avere gli umanitari nel mirino) hanno pagato l'aumento esponenziale della violenza che in Afghanistan non risparmia nessuno: i civili soprattutto. Sotto i colpi di mortaio dei talebani o per essersi trovati a tiro di qualche kamikaze che mirava a obiettivi militari, i non combattenti uccisi aumentano giorno dopo giorno. E anche gli “errori” della coalizione militare occidentale fanno la loro parte. Solo negli ultimi giorni gli “effetti collaterali” dei bombardamenti hanno fatto una ventina di vittime costringendo le autorità afgane ad aprire un'inchiesta. Almeno 400 civili sono stati uccisi dalla guerra, nelle sue forme più diverse, dall'inizio dell'anno e sarebbero oltre una ventina gli operatori umanitari finiti nel mirino della guerriglia islamica. Una situazione che continua a peggiorare.
Le notizie che arrivano dalla capitale sono inquietanti: i talebani sono da sempre alla periferia di Kabul e ogni tanto si fanno sentire con qualche colpo di mortaio, missili lanciati dalle alture per dire: siamo qui. Ma adesso hanno aumentato la pressione e non solo con gli uomini bomba o le auto imbottite di esplosivo. L'obiettivo è di solito militare: caserme, convogli, ministeri. Ma a pagare sono sempre i civili. Presi in mezzo. E purtroppo presi in mezzo tra due fuochi. In una situazione in cui diventa sempre più difficile capire qual'è e, soprattutto se esiste, il “fuoco amico”.
Alla periferia Ovest di Kabul, la strada corre in un corridoio che, a destra, vede sorgere nuovi quartieri residenziali. Ma sul lato sinistro la nuova urbanizzazione della capitale parla un altro linguaggio. C'è un accampamento di tende lacere sprofondato in un terreno sabbioso e dove qualche rigagnolo d'acqua forma subito un acquitrino. E' una città di stracci dove l'insegna dell'Unhcr, l'agenzia dell'Onu che si occupa degli sfollati, sembra l'unico segno di interesse del mondo verso questi diseredati. Quanti saranno? cento, duecento, mille? Difficile dirlo.
Mentre siamo fermi sul ciglio della strada a rubare con la macchina fotografica qualche immagine in questo deserto dell'anima, un'anziana ci viene incontro. Non ce l'ha il burqa questa signora. Ha un corpo smagrito e rinsecchito avvolto da stracci neri drappeggiati dignitosamente come un vestito. Un filo di henné le tinge ancora parte dei capelli candidi. Tende la mano in un gesto che non è comune in questo popolo fiero. L'amico afgano che è con noi si fa interprete di una rabbia che è ormai solo disperazione. Al posto della gamba questa anziana signora della provincia dell'Helmand ha una protesi. No anzi, a guardar bene è solo un pezzo di legno in cui è stato infilato un perno che morde una specie di scarpetta formata da strati di cuoio e copertoni. Si appoggia a una stampella. E' finita sotto un bombardamento la signora. Ma non sa di chi erano quelle bombe. Se della Nato o della coalizione a guida americana, quel che resta di Enduring Freedom e che continua a generare una pericolosa confusione in cui ormai i distinguo si assottigliano.
Qualche mese fa un sondaggio della Bbc dava al oltre il 50% il consenso degli afgani nei confronti della presenza occidentale. Una percentuale che era assai più elevata sei anni fa e che ogni anno si assottiglia. Difficile pensare che gli afgani preferiscano tornare sotto i diktat di mullah Omar, anche perché i talebani non si fanno scrupolo di uccidere i civili nelle loro azioni militari. Ma anche noi stiamo facendo altrettanto con lo svantaggio di essere stranieri. E non ci sono segnali di un cambio di strategia.
Da una delle alte montagne che dominano la capitale osserviamo la città mentre scende il tramonto. C'è qualcosa che strega in questa metropoli centroasiatica fatta di casupole abbarbicate alla montagna dove la furia di sopravvivere ha trasformato uomini e donne in muratori clandestini che erigono le loro casette dove possono, come se il colore dei mattoni, lo stesso della montagna, potesse in qualche modo porli al riparo. Balconi che pencolano su un abisso dove decine di ruspe completano nuovi scintillanti edifici in una febbre speculativa che la guerra, anziché fermare, alimenta. Vanno di moda questi edifici di vetrocemento e questi scintillanti manufatti di vetro luccicante che vengono appiccicati sulle costruzioni tradizionali e che regalano l'illusione della modernità. Anche il tessuto sociale di Kabul sta cambiando. Specchietti colorati per nascondere il dramma.
Il narcotraffico, il vero balzo in avanti dell'economia locale, crea nuova ricchezza e nuovi soggetti che mischiano una perversa modernità assemblata con occhiali a specchio e abiti di taglio occidentale a quel che resta di un Afghanistan tradizionale che sembra smarrire la sua identità. Del narcotraffico si sanno solo i numeri della produzione (8mila tonnellate prodotte nel 2007) e il fatto che, in tangenti sulla protezione, i soli talebani si sarebbero guadagnati una stecca da cento milioni di euro. Un affare che forse sta modificando una guerra combattuta in nome di una fede che il denaro dell'oppio, amaro come il sapore del frutto del papavero, probabilmente annacqua. Ma in queste periferie ammucchiate dove si accalca, senz'acqua e senza servizi, la popolazione di una città che in venticinque anni ha quintuplicato le sue presenze arrivando a quattro milioni di abitanti, come lavora il tarlo del narcotraffico? Che speranze promette a una gioventù senza futuro che, se sfugge al reclutamento talebano (comunque interessante visto che paga anche dieci volte più che il salario dell'esercito) non sa come impiegare sangue, braccia e cervello? La città in realtà offre abbastanza: lavoro nei cantieri, nei servizi, nelle mille attività legate all'edilizia e alla ricostruzione. Ma non ce n'è per tutti. Come per i contadini nei campi, per i giovani kabulini l'oppio o l'eroina devono essere una bella attrattiva. Non tanto per il consumo (comunque alto: un milione di tossicomani in Afghanistan tra cui 60mila bambini sotto i quindici anni) quanto perché, in assenza della pace, è una bella assicurazione per il futuro.
Quanto alla produzione, il 70% dell'oppio afgano viene dalle province di Kandahar ed Helmand. Le stesse da cui è scappata, sotto le bombe, la nostra signora del campo di sfollati. E' un binomio esplosivo. Una guerra nascosta dentro la guerra guerreggiata. Fa anche lei, in un modo o nell'altro, le sue vittime civili.

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