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Di vecchi fucili ad avancarica, ben appoggiati nella rastrelliera del ristorante al piano terra, ce ne sono parecchi al Gandamak, luogo tra i preferiti dagli expat di Kabul, soprattutto quelli che fanno dell'uso delle armi il proprio mestiere. Locale per loro. Non per me. Fa pena quel vecchio ottuagenario afgano che, nella reception del ristorante, vende collanine alle prostate vaganti che, gonfie di birra, vanno al cesso a mingere. Nell'angolo un suo sodale prega mentre l'orologio alla parete di questo locale molto colonial-british, con una sua eleganza di un qualche fascino a mezzogiorno, segna le due. Di notte.
L'hang out è di sotto, nel seminterrato. Il locale è stretto e lungo con pochi anfratti per vedere video o fare quattro chiacchiere. I soffitti sono bassi e il fumo aleggia sovrano. Colore dominante: rosso (taurino). La frequentazione è varia: dai taurinici contractor, con cui proprio non vorreste litigare, a giovani ragazzi sorridenti di qualche Ong, ma anche diplomatici in libera uscita, consulenti e consiglieri, uomini d'affari, ragazze stagionate sicure di un rimorchio troppo facile in una città dove il rapporto maschi/femmine può arrivare a dieci a uno (come ieri sera). Ci saranno una venticinquina di persone perché, anche qui, l'attacco talebano multiplo di febbraio ha fatto il suo effetto. Ma questi giovinastri in tipica tenuta da mercenario, dai cui pori schizzano fiumi di birra e che hanno delle mani grandi come la mia faccia, se ne fregano. Sanno di essere i padroni della scena in un paese dove rappresentano il quarto esercito in servizio.
Il Gandamk è frequentato anche dai giornalisti e quelli embedded, se in libera
Le foto riproducono - oltre a due umanitari causalmente incontrati - l'autore e, alla sua sinistra, l'Ammiraglio, acuto timoniere notturno di questo utlimo tour della Kabul by night. La foto è di Romano Martinis, dietro l'obiettivo. I reperti sul tavolo solo in parte ci appartengono
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