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venerdì 13 marzo 2009

PRANZO FUORI PORTA (A KABUL)

La fortuna aiuta il cronista, non solo gli audaci.
A leggere ricerche e sondaggi ci si fa un'idea di cosa pensano gli afgani, ma il riscontro delle evidenze tratteggiate da grafici e torte, istogrammi e percentuali, bisogna raccoglierlo per strada. Coniugando la fredda e pur sempre opinabile matematica dei dati, all'umore della gente. Un passaggio che richiede tempo e fortuna. Che arriva di venerdi con l'invito a un pranzo in piena regola, per il giorno di festa, nella periferia Sud della capitale. Quale occasione migliore che un evento conviviale perché l'ospite si rilassi e la conversazione si sciolga. E vengano finalmente fuori le cose che la gente vi dice a mezza bocca, altrimenti intimorita o più semplicemente sospettosa, visto che siamo bene o male degli appartenenti alla comunità degli occupanti/donatori. I ricchi eserciti – civili o in divisa – che stazionano nel paese.
Il pranzo del venerdì si svolge a casa di un personaggio autorevole. Le donne, di rigore, stazionano nelle cucine. Invisibili. Parenti e giovinotti di famiglia si occupano delle vivande e del rigido rituale che precede, segue, conclude il lauto pranzo: scorrono grandi piatti di kabuli palau, diversi manicaretti a base di montone, preziosi bulani (ravioli ripieni), salse allo yogurt e pasticci di verdura. L'immancabile piatto di crudità e il passaggio della brocca con l'acqua calda per lavare le mani. La sala è stretta e lunga con tappeti e kylim una schiera di cuscini su cui si far riposare la schiena. Si mangia seduti ai bordi di un largo tappeto su cui viene appoggiata una tovaglia di plastica perché vi scorrano i piatti di portata. E si mangia in silenzio. Solo qualche battuta e la preoccupazione costante che l'ospite sia comodo, non gli manchi nulla, abbia gustato il pollo alla brace e il prosciutto di montone, l'umido di vacca, le arance a fine pasto che un commensale si occupa di spaccare in quattro appoggiandole accanto agli anar, i sugosi melograni dai rubizzi pallini di succo rosso.
Dopo il te e una lunga teoria di pistacchi, nocciole, mandorle, anacardi la conversazione si scalda. C'è un generale di polizia, un professionista stimato che fortunatamente si occupa di fare la traduzione, e un paio di signori il cui il tradizionale abito afgano - uguale per tutti – non tradisce lo status sociale. Che però si comprende in fretta: “L'ho spiegato a Karzai – dice il più apparentemente dimesso dei due che si rivela subito un ottimo intrattenitore – e l'ho anche detto a Saleh (il capo dell'intelligence) e al ministro dell'Interno: perché non dite la verità? Che a settanta dollari al mese la polizia è corrotta e che la temiamo più dei banditi?”. Questi due signori gestiscono una ditta di trasporti di un certo rilievo. “Lavorare per gli americani? No grazie. A quelli di Bagram (la più grossa base Usa nel paese ndr) ho spiegato che non mi va di correre rischi con loro”. Ma i rischi, sulle strade del Sud, non si corrono coi talebani? “Coi talebani? Quando ci sono loro a controllare la strada fila tutto liscio. Il problema è quando la controlla la polizia, che vuole mazzette oppure lascia che i banditi taglieggino i carichi”. Non spiegano se coi talebani c'è un accordo o semplicemente se trasportano qualcosa per loro. Il generale della polizia annuisce. Sa anche che i commensali non stanno parlando di lui che ha la fama di essere integerrimo...Leggi tutto su Lettera22

la foto: pranzo afgano (particolare) di R. Martinis

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