Uscito da una lauta colazione per expat all'Hotel Serena, con circa 12 vassoi lasciati semi intonsi dall'inappetenza della comunità internazionale, mi è salito dallo stomaco un vago senso di nausea quando, seppur scherzando, uno di loro ha raccontato a un altro che, per via della ricorrenza genetliaca della regina d'Olanda, l'ambasciata dei Paesi bassi dava un ricevimento nella sede di Isaf con alcool gratis per tutti. Non mi considero un moralista e sono anche un discreto bicchiere. Infine a un giornalista non si dice mai di no e la tentazione di scolarsi una bottiglia della cantina di una regina fa sempre gola. Ma quel senso di nausea mi ha impedito di prendere ulteriori informazioni.
A questa dorata bolla di sapone in cui vive la comunità internazionale – diplomatici, funzionari, reporter, umanitari, persino soldati – gli afgani hanno scarso accesso. Mosche bianche. E naturalmente ci si conosce tutti, loro élite di una società lasciata fuori dalla porta del Serena e noi espressione degli eserciti occupanti (tecnicamente un esercito che gestisce la sicurezza interna di una nazione sovrana è “occupante”, anche se il termine è fastidioso). Anch'io esco dalla porta del Serena. Mi manca l'aria: sono in Afghanistan ma di afgani, salvo il portiere dell'albergo e i camerieri, non ne vedo. Più tardi, camminando per il grande boulevard di Sharenaw, vicino a dove abito e al bel parco che costituisce uno dei rari polmoni verdi della città, mi sono invece fatto un'iniezione di afganità: ...e quanti ce ne sono! Ma che ci fanno tutti questi afgani, tra cui molti straccioni e fastidiosissimi mendicanti, a turbare il tranquillo e beato ambiente che tanto rendeva simpatico il bar del Serena? Non potrebbero stare a casa senza esibire così patentemente il nostro e il loro fallimento?
Quel che mi colpisce è la presenza di due uomini sui quarant'anni che chiedono l'elemosina. Uno tiene un bambino tra le braccia e la testa china. L'altro, poco più in là, il capo l'ha completamente avvolto nel pathu, il mantello. Entrambi esibiscono, a richiamo della loro necessità, due ricette mediche. E tengono la testa bassa, a richiamo della loro vergogna. Un adulto che chiede le elemosina in questo paese è un caso raro. Di solito son le donne, nei loro burqa rattoppati e lisi, i bambini cenciosi e smoccolenti o vecchi incanutiti forse troppo presto. Ma uomini adulti mai. E se ci fate caso anche nelle nostre società opulente, i quarantacinquantenni – a meno che non siano clochard che fanno i parcheggiatori abusivi o che biascicano qualche richiesta – l'elemosina non la chiedono. Voglio dire quegli uomini di mezza età vestiti decentemente, che magari hanno anche un lavoro ma non abbastanza remunerativo per pagare le cure per il figlioletto. Una volta ho visto un mio coetaneo a Roma, ben vestito e con la testa tra le mani – coperto di angoscia e vergogna – chiedere la carità davanti alla Rinascente. Piangeva con il viso rivolto alla vetrina. Ho provato un senso di imbarazzo che ricordo ancora.
Lo provo adesso a Kabul per questi due gentiluomini che esibiscono pubblicamente il proprio dramma in questa società arcaica e tradizionale dove l'orgoglio è tutto. Mostrare così, davanti a tutti, le proprie difficoltà non è di questo popolo dignitoso e fiero che si lascia morir di fame piuttosto che pietire la vostra misericordia. Negli anni Settanta, quando la guerra non c'era, mendicanti non ne ricordo proprio. Adesso, narrano le cronache, nella sola Kabul ci son quattromila bambini di strada: abiti laceri, manine lerce e l'espressione tragica di chi dovrebbe esser a giocare e invece vi chiede se volete spazzolare le scarpe per qualche afganis.
Cinici come siamo, per professione ed esperienza, dovremmo passar oltre. Ma alla fine sono tornato indietro e ho messo mezzo dollaro a uno e un dollaro all'altro, sulle consunte ricette davanti ai piedi e alle teste chinate di questi due signori. Pensavo che mi avrebbero ringraziato per tanta generosità. Ma nessuno di loro ha alzato la testa. Certo, ho pensato, la carta moneta non fa rumore: non se ne saranno accorti...
Ognuno ha il suo modo di consolarsi come può.
1 commento:
Carto Emanuele, sono rientrato stamattina con un volo militare. Ti confesso che mi mancava l'aria lì dentro, e non era la prima volta che finivo in una base italiana. Mi mancava l'aria perchè non riuscivo e non riesco ad accettare la nostra presenza militare. Non la accetto, non la capisco, mi fa male. Come non sopporto più gli articoli stupidi e banali, pieni di nulla che vengono pubblicati troppo spesso su questo Paese e su questa guerra.
Ciao,
C
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