Bombe a Giacarta. Una riflessione a margine
“Guerre dimenticate” è una locuzione che troppo spesso è stata
affibbiata all’Africa o a qualche remoto conflitto di bassa intensità
sulle ande colombiane. Quando pensiamo all’Asia consideriamo la guerra
infinita che travaglia il Medio oriente o ci concentriamo
sull’Afghanistan, al massimo sull’AfPak, l’acronimo con cui ci siamo
abituati a pensare quella guerra in chiave regionale. Ma in realtà
l’Asia, il continente più vasto e più popoloso del pianeta, è una
terra di grandi conflitti e tensioni. Guerre che, più che dimenticate,
spesso non vengono nemmeno considerate come se fossero malattie
endemiche (e un po’ lo sono) senza soluzione. Dell’Asia preferiamo
considerare il bicchiere mezzo pieno: i grandi numeri dello sviluppo
cinese e indiano, le performance delle “tigri”, il “secolo dell’Asia”,
che ogni anno ci viene ripropinato come tale.
Molti dei conflitti dell’Asia, dalle guerre indo-pachistane, alla
crisi dello Sri Lanka, alle tensioni costanti tra Thailandia e
Malaysia, ai conflitti irrisolti nella Birmania profonda, alla guerra
sottotraccia nel Sud delle Filippine, hanno un’origine coloniale.
Certo gli asiatici, popoli guerrieri non meno degli occidentali, ci
hanno messo del loro, ma è fuor di dubbio che la colonizzazione e il
lento processo di decolonizzazione (la Malaysia divenne indipendente
solo negli anni Cinquanta del secolo scorso) hanno lasciato magagne
difficili da sanare: i britannici lasciarono in eredità a indiani e
pachistani le maledette frontiere del Punjab e del Bengala, che fino
agli anni Settanta, si chiamava Pakistan orientale, un’aberrazione
geopolitica forse senza precedenti. Avevano anche disegnato nel 1880
la contestatissima Durand Line tra Afghanistan e Pakistan – che aveva
inesorabilmente diviso in due il mondo pashtun - e si erano ben
guardati dal risolvere i contenziosi di frontiera tra il regno thai e
le popolazioni malesi (musulmane) inglobate dal Siam.
Nel Sudest asiatico la loro permanenza aveva contribuito a mettere i
malesi contro gli indonesiani per via di quella fetta di Borneo che la
Corona si era accaparrata grazie ad avventurieri come James Brooke. In
Indonesia in particolare erano stati gli olandesi (ma anche
portoghesi, francesi, inglesi) ad aver fatto di quel ricco paese
soprattutto una riserva aurea per la monarchia e la classe mercantile
dei Paesi bassi. Una cassaforte ceduta molto controvoglia – con meno
abilità rispetto a quanto aveva fatto Londra con il Raj – e al prezzo
di una vera e propria guerra di indipendenza capeggiata da Sukarno.
Sukarno e i suoi sodali si ritrovarono in mano un paese distrutto che
la corona olandese aveva tenuto insieme con la forza e la paura dopo
averne depauperato i suoli, le ricchezze minerarie, i profitti che
poteva offrire il mare in una nazione di 16mila isole. Gli olandesi
avevano tenuto assieme un impero tanto vasto per tre secoli curandosi
poco di governare una diversità etnica, linguistica, culturale che
sarebbe inevitabilmente esplosa con l’arrivo della libertà.
Esplose due volte: negli anni Sessanta quando l’Indonesia cercò di diventare
davvero un paese indipendente (non solo formalmente) e venne messa a
regime da un golpe, assecondato da americani e occidentali, che portò
a 32 anni di dittatura. Infine è esplosa dopo la caduta della stessa
dittatura, liberando forze vecchie e nuove (tra cui l’islam) e
mettendo a soqquadro un ordine, politico ed economico, che era stato
governato col pugno di ferro per sei lustri dal dittatore Suharto.
Governare questa seconda esplosione è stata la scommessa di Yudoyhono,
il presidente due volte eletto che nella libertà ha davvero creduto.
Sperando che l’età del conflitto fosse definitivamente finita non ha
forse fatto i conti con gli strascichi di questa difficile situazione.
E aver iniziato a mettere le mani in questa matassa gli sta costando
caro.
Quale che sia la mano che ha innescato le bombe di qualche giorno fa a Giacarta, la nuova stagione del
terrore sembra far venire al pettine tutti quei nodi antichi e le
regie sotterranee già viste in questo vasto e lontano arcipelago.
Difficile credere a una Jemaah Islamiyah che rinasce dalle ceneri e
colpisce per qualche oscuro progetto jihadista. Più facile credere a
un’attenta regia di destabilizzazione, come in Asia se ne vedano tante
e che il presidente Yudoyhono ha in qualche modo paventato. Liquidare
le bombe con una sigla non servirà.
In paesi come l’Indonesia, la democrazia è una democrazia vera e non
importata dall’esterno. Frutto di una presenza forte della società
civile e di una capacità anche culturale di assorbire le spinte
negative e di lavorare per la (ri) costruzione di un paese le cui
frontiere artificiali sono state create e custodite per 300 anni da
gente di un altro colore. Equilibri difficili da maneggiare e che una
bomba può tentare di mandare in pezzi con facilità. Colpendo coloro
che lavorano per costruire il futuro sulle ceneri di un pessimo
passato.
Nessun commento:
Posta un commento