Centoquaranta morti e ottocento feriti. Una strage che si consumatra domenica e lunedi a Urumci, capitale dello Xinjiang, la regione orientale della Cina abitata in maggioranza da uiguri, una comunità turcofona e musulmana che maldigerisce il rapporto con Pechino e con la “colonizzazione” degli han, la comunità etnica maggioritaria della Repubblica popolare cinese.
Il massacro ha ancora contorni incerti e motivazioni e modalità su cui grava il silenzio tipico della censura cinese. Nel giorno in cui il presidente Hu Jintao arriva in Italia per partecipare al G8, nella riottosa provincia del Turkestan orientale, come gli uiguri chiamano la loro “nazione”, si diffonde la notizia di una manifestazione che, domenica, ha attraversato le strade della capitale. La gente manifesta per chiedere un'inchiesta approfondita e l'arresto dei colpevoli per un fatto di sangue avvenuto in giugno nel Guandong, un'altra provincia cinese a maggioranza han (come tutte escluso Xinjiang e Tibet). Una rissa scatenatasi in una fabbrica tra han e uiguri avrebbe portato alla morte di alcuni operai dello Xinjiang ma senza che le autorità abbiano consegnato alla legge i colpevoli. La manifestazione trascende in episodi di odio etnico con sassaiole contro le vetrine dei negozi degli han o semplicemente contro gli autobus dello stato, dati alle fiamme (anche se è difficile capire quale sia stata la scintilla che ha innescato l'incendio). Nei primi dispacci d'agenzia il bilancio è di tre cinesi e un poliziotto morti: tutti han. Ma, a metà mattinata, il capo del Partito comunista della regione autonoma dello Xinjiang dà la notizia choc: i morti non sono tre ma 140 e 800 i feriti.
La ricostruzione è difficile quanto è invece chiara, secondo Pechino, la responsabilità, attribuita al Congresso mondiale uiguro, una formazione in esilio che combatte lo strapotere di Pechino e difende l'identità degli uiguri. Il Congresso respinge al mittente le accuse e sostiene invece che almeno quattro apparati di repressione sono intervenuti usando a ripetizione armi automatiche. Una strage senza uguali dalla rivolta tibetana dell'anno scorso. Centinaia gli arresti, impossibile la ricostruzione esatta degli avvenimenti, difficile superare la barriera di silenzio imposta ai media e alle testimonianze indipendenti.
Le autorità cinesi non hanno dubbi: la manifestazione – diverse centinaia di persone – era natura per violenta e composta di gente armata di bastoni e coltelli: 260 i veicoli distrutti; 200 i negozi danneggiati. La violenza avrebbe attraversato l'intero centro di Urumci attorno a alla Piazza del popolo, al bazar e alle arterie di Jiefang e Xinhua Sud. La città è adesso presidiata da ingenti forze dell'ordine. Un'americana che studia in città ha riferito che i soldati sono ovunque, e che il traffico si è completamente fermato.
Gli uiguri formano circa il 45% degli abitanti della provincia dove gli immigrati Han rappresentano adesso il 40% del totale. Nel 1949, dopo la breve vita di uno Stato del Turkestan orientale, i cinesi ne hanno ripreso il controllo ma il risentimento è forte. E alcuni gruppi terroristici locali si fanno sporadicamente sentire: il 4 agosto scorso uccisero 16 poliziotti cinesi vicino all'antica città di Kashgar.
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