Il dibattito sull'Afghanistan negli Stati uniti è in realtà una polemica sotto traccia. Tra quello che vorrebbe il presidente (che ha chiamato a rapporto i suoi consiglieri politico-militari) e le esigenze del terreno, nel quadro sfilacciato di un paese dove l'unica certezza è che il 19 novembre prossimo sarà la data ufficiale dell'insediamento di Karzai (cui parteciperà anche il ministro italiano Franco Frattini). Un insediamento per ora senza esecutivo e con l'incognita del ruolo che vi potrebbe avere Abdullah Abdullah, il grande sfidante del presidente. Rieletto con un escamotage proprio grazie al ritiro del candidato numero 2 dalla corsa del ballottaggio prevista il 7 novembre scorso.
A pesare è anche la divulgazione di un memo “riservato”, due fonogrammi inviati al dipartimento di Stato, in cui l'attuale ambasciatore americano a Kabul, un ex militare da poco approdato alla legazione diplomatica, si è detto scettico sull'arrivo di nuove truppe, opzione suggerita dal generale statunitense McChrystal - comandate in capo delle forze americane e Nato nel paese - che sembra lasciare freddo il presidente e diversi suoi consiglieri. E che è invece caldeggiata da Hillary Clinton, dal segretario alla Difesa Gates e dal capo di stato maggiore Mullen.
Nei suoi messaggi “riservati”, e finiti ieri in prima pagina da costa a costa (dal Washington Post al Los Angeles Times), l'ambasciatore Usa a Kabul, Karl Eikenberry (nell'immagine), ha espresso riserve sull'utilità di aumentare le truppe in Afghanistan prima che il governo Karzai abbia dimostrato la volontà di affrontare la corruzione e la cattiva gestione che hanno contribuito a offuscarne l'immagine. Inutile, in una parola, mandare più soldati se il quadro politico nazionale resta incerto, inefficiente e caratterizzato dai mali già da tempo rimproverati a Karzai (e ai quali, due giorni fa, il presidente afgano ha risposto a muso duro in un'intervista in cui ha chiamato in causa le manchevolezze della comunità internazionale). Per di più, Eikenberry non è un diplomatico di carriera ma un generale a quattro stelle in pensione che, se spezza una lancia sugli orientamenti della Casa Bianca, contrasta sia le indicazioni di McChrystal sia la cordata Gates, Cilnton, Mullen.
Ha avuto così buon gioco la Cnn nel raccontare ieri che il presidente è “insoddisfatto” delle possibili opzioni sull'Afghanistan presentate dai suoi collaboratori dopo il “consiglio di guerra” che (era l'ottava volta) si è riunito con Obama sul dossier afgano. A quanto si dice, al consiglio sono state discusse quattro opzioni per la futura strategia per l'Afghanistan che vertevano tutte sui numeri del possibile nuovo invio di truppe: da 10 a 40mila uomini.
Ma dire che esista una reale frattura o l'esistenza di due linee contrapposte sulla vicenda sarebbe riduttivo. Non a caso ieri, da Manila, la segretario di stato americano Hillary Clinton ha esortato il governo afgano a un serio impegno contro la corruzione e ad “accettare maggiori responsabilità per la sua difesa”. Anche se la Clinton non ha voluto commentare le valutazioni di Eikenberry, le sue dichiarazioni sembravano ricalcarle (“vogliamo trovare misure di responsabilizzazione e trasparenza che dimostrino il chiaro impegno per la governance e i risultati che merita il popolo afghano”) e battevano sul chiodo della “corruzione”, elemento sensibile e più volte emerso, specie a carico del fratello di Karzai, durante e dopo la campagna elettorale.
L'impressione generale è che gli americani vogliano comunque prendere tempo e forse aspettare di capire come sarà e quale forza e rappresentatività avrà il nuovo esecutivo di Kabul, al momento del tutto vago. Ma la nebulosa che circonda il futuro non aiuta. Spiega un diplomatico occidentale come parole quali “riconciliazione” o “reintegrazione” siano ormai entrate a far parte del lessico corrente, perlomeno quello sotto traccia utilizzato dalla diplomazia occidentale accreditata nel paese, e come dunque si stia cominciando a pensare a qualcos'altro oltre la sola opzione militare. Ma l'incertezza tende a frenare qualsiasi iniziativa e a complicare un quadro già di per se' intricato.
La sindrome afgana rischia dunque di guastare al presidente il piatto asiatico e cioè il suo primo grande viaggio in Asia, dove la prima tappa è proprio il Giappone, paese nel quale il neo premier Yukio Hatoyama ha appena deciso di stanziare altri cinque miliardi di dollari di aiuti per l'Afghanistan ma ha anche scelto di levare l'appoggio navale nipponico alla Nato. Ma, al di là del viaggio asiatico, Obama dovrà anche pensare al complesso sistema di relazioni tra i diversi paesi che guardano alla crisi afgana e decidere come muoversi nella direzione – quella diplomatica – su cui in campagna elettorale aveva detto di voler investire. E di cui per ora non c'è una traccia delineata con chiarezza.
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