Una schiarita e una complicazione l'arrivo a Kabul di una delegazione che fa capo al potente gruppo guerrigliero dell'ex comandante mujaheddin Gulbuddin Hekmatyar. Se infatti l'incontro dei suoi emissari col presidente Karzai sembra indicare che si sta effettivamente lavorando a un piano di riconciliazione nazionale, dunque a una tregua e a una trattativa con le forze insurrezionali, questo preludio negoziale segnala anche una difficoltà. Quella della trattativa con i talebani di mullah Omar, il signore riconosciuto della guerriglia in turbante. Se Hekmatyar non è mai stato un talebano e si è solo tatticamente alleato con i guerriglieri di Quetta (la probabile sede del Gran consiglio talebano), la sua è una fazione importante della guerriglia anti Karzai. E una frattura nel fronte guerrigliero può essere propizia ma anche nefasta per un allargamento del negoziato.
La notizia comunque è che, annunciato da un video fatto girare prima dell'incontro e in cui Hekmatyar apriva la strada della trattativa (non nuova per lui), una delegazione dell'ex capo mujaheddin, già primo ministro del governo insediatosi dopo la cacciata dell'ultimo governo filosovietico da Kabul, è venuta nella capitale per trattare direttamente con Karzai. Guidata da un altro ex primo ministro afgano, Qutbuddin Helal considerato il vice di Gulbuddin, la delegazione ha posto le sue condizioni al presidente: l'uscita di scena delle forze occidentali entro l'estate (un anno prima del possibile inizio di un'exit strategy come indicato dal presidente Obama), nuove elezioni e una nuova Costituzione. Ma prima di tutto la chiarezza sul ruolo di Karzai come negoziatore: uomo che rappresenta gli interessi di parte degli afgani e non burattino in mano alle potenze occupanti. Tutti gli osservatori concordano nel ritenere più che interessante il passo di Hekmatyar. La sua agenda non coincide certo con quella della comunità internazionale o dello stesso Karzai, ma, come in tutte le trattative, è una buona base per negoziare né Hekmatyar certo si aspetta che sia accettata in toto. Uomo rotto alle più diverse alleanze e a salti della quaglia tattici di ogni tipo, il personaggio risponde a una sola strategia: quella che lo vede come protagonista. Ma è forte e influente: non solo nella zona Est dell'Afghanistan o nell'area pachistana di Peshawar dove ha probabilmente il suo quartier generale. Originario di Kunduz, nel Nord, controlla anche diverse aree afgane settentrionali, come quella di Baghlan dove si sarebbe appena scontrato proprio con i talebani per una questione di “tasse” sui villaggi sotto controllo della guerriglia (60 morti il bilancio degli incidenti).
Hekmatyar gode anche di un appoggio, teoricamente indiretto, in parlamento. Il partito da lui fondato negli anni Settanta, l'Hezb-e-Islami, ha una rappresentanza parlamentare di 19 seggi (su 246) e uno dei ministri di Karzai, il nuovo titolare dell'Economia, ne fa parte (anche se ufficialmente tra il partito “legale” e quello “clandestino” non ci sarebbero legami).
La domanda vera è cosa succederà adesso con i talebani, dopo l'aperta presa di distanza di Hekmatyar dal movimento e dopo le nubi che si vanno addensando sulla cattura di mullah Baradar, il braccio destro di Omar arrestato il mese scorso da Islamabad. Per Kai Eide, l'ex capo dell'Onu a Kabul, l'arresto è un ostacolo ai contatti negoziali già avviati. Per altri, il prigioniero è la chiave con cui leggere il desiderio dei pachistani di prenotarsi un posto al tavolo negoziale con Kabul, per ritagliarsi un potere indiretto sulla transizione futura. Il quadro insomma è tutt'altro che sereno e se la trattativa con Hekmatyar sembra comunque una buona notizia, sotto un altro profilo potrebbe minacciare i già fragili tentativi di espandere gli informali colloqui già avviati con la cupola talebana, cosa di cui in realtà si sa molto poco.
Quel che appare evidente è che Karzai ha fretta anche perché vuole dimostrare di non essere semplicemente una marionetta in mano agli americani. Che hanno messo Hekmatyar sulla lista nera e che vorrebbero comunque negoziare solo dopo il completamento dell'intero dispiegamento di nuovi soldati appena deciso dagli Stati uniti (in totale tra 130 e 150mila uomini entro il 2010), come vuole la nuova strategia del generale McChrystal. Per poter trattare da una posizione di forza. E solo a quel punto iniziare a pensare seriamente a trattative ed exit strategy.
1 commento:
Analisi molto interessante Manulo, grazie di questi aggiornamenti.
Posta un commento