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martedì 20 aprile 2010

A LA GUERRE COMME A LA GUERRE


Il funzionario di un'importante agenzia internazionale è pensieroso. Lavora nel Sud dell'Afghanistan. Un posto maledetto su cui, per sdrammatizzare, circolano barzellette: “Kandahar i canadesi la chiamano Canadahar...”, dice, ma non ha una gran voglia di ridere. “La chiusura dell'ospedale di Emergency è una seria preoccupazione perché in quell'area è l'unico luogo dove si può avere assistenza medica chirurgica di livello”.
Con l'operazione a Marjah alle spalle e con una nuova offensiva Nato all'orizzonte, il quadro non è rassicurante. Un nuovo operativo, spiegano gli umanitari che monitorano quello spicchio di Afghanistan, significa anche Ied (mine rudimentali lungo le strade), ordigni “sporchi” e kamikaze. Che uniti allo sfacelo delle bombe o agli “effetti collaterali” di qualsiasi offensiva militare faranno comunque un macello.

Il quadro afgano è desolato, come quello di ogni guerra. Ed è poco consolante che il generale Stanley McChrystal abbia fatto di tutto per cambiare passo, modificare le regole d'ingaggio, evitare un certo tipo di bombardamenti dall'aria, far maggior attenzione nei rastrellamenti, aver più cura ai checkpoint. La guerra è guerra, verrebbe da dire. E non c'è guerra umanitaria che tenga. I due termini fanno a pugni in una cacofonia disperata. Anche i talebani hanno questa preoccupazione. Quando cala il consenso perché il gioco si fa duro, il problema è per tutti quello di evitare le vittime civili. Cosa possibile solo con una tregua. In attesa che Unama faccia il primo bilancio di quest'anno sul numero di innocenti uccisi (2.186 tra gennaio e novembre 2009, due terzi dei quali ammazzati dalla guerriglia), all'orrore di una guerra già poco raccontata si aggiunge ora un testimone in meno. E un problema in più per i feriti da armi, schegge, bombe, proiettili che la mano di un bravo chirurgo - un Garatti che impegna il suo tempo a salvar la pelle altrui rischiando la propria - potrebbe salvare.

Un gioco così duro che passa in secondo piano un lieve terremoto che ha colpito ieri la provincia di Samangan, a quasi 200 chilometri da Kabul, nel Nord. In fondo sono “solo” undici morti e una settantina di feriti e forse qualche metro cubo di villaggi (pare circa trecento case) andato giù col suo carico di miseria. Le altre notizie sono routine della guerra: la polizia segreta che annuncia l'arresto di una decina di militanti che stavano preparando un attacco nel cuore della capitale (cosa che dopo l'arresto degli uomini di Emergency viene da prender con le molle) o la notizia (non confermata) che un soldato si sarebbe fatto esplodere in una base dell'esercito afgano uccidendo un militare. Oppure ancora la nomina, sabato scorso, di Fazel Ahmad Manawi alla testa della Commissione elettorale (Iec) al posto di Azizullah Lodin, spazzato via dalla bufera seguita alle elezioni di agosto, capro espiatorio di una brutta storia terminata con la “rielezione” di Karzai a presidente.

La guerra va avanti e con lei la fibrillazione politica in una capitale scossa dal pericolo di attentati sempre in agguato ma anche da un futuro incerto, da ricucire rapidamente alla viglia, nemmeno troppo lontana, dell'incontro a Washington il 12 maggio tra Karzai e Obama, che è sempre un po' in forse. Sullo sfondo, l'affaire Baradar, il capo talebano arrestato dai pachistani e che, dicono gli avveduti, è la pedina di Islamabad per entrare nel piatto del processo di riconciliazione nazionale. E infine la Loya Jirga di pace, ormai alle porte, tentativo di farlo marciare questo processo di pace di cui tanto si parla che ma stenta ad avviarsi. Come farlo partire bene, del resto, in attesa di una ennesima offensiva di terra della Nato? Qualche settimana fa, prima del caso Emergency, Karzai ha fatto un giro tra gli anziani dei villaggi che saranno inclusi più o meno direttamente nell'offensiva. Ha rassicurato e garantito che nulla si farà senza un accordo preventivo con loro. Sempre in cerca di consensi, il ras di Kabul deve dimostrare che in Afghanistan comanda lui, che non è, come si dice sempre, solo il sindaco della capitale. Da come saprà gestirla, più o meno d'accordo con McChrystal, che gli liscia le penne come alla gare tra galli che si giocano al venerdi nei giardini di Babur, si vedrà la sua tenuta. Ma anche quella del generale che, entro l'anno, ha promesso una svolta e si sta giocando la faccia e la carriera.

Se Emergency sia stata cacciata in quanto testimone scomodo resta da dimostrarsi. Scomodi però son scomodi Gino e i suoi accoliti, sempre con questo mantra infinito delle vittime. E quel che è certo è che la loro dipartita viene probabilmente festeggiata in più sedi. Gli unici a disperarsi veramente saranno gli afgani feriti. Quelli del mantra di Gino per i quali oggi, come ieri, i taccuini dei cronisti sono avari. Da oggi un po' più di ieri.

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