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mercoledì 14 aprile 2010
SOTTO TIRO LO SPAZIO UMANITARIO
Proprio in questi giorni, Enna (European Network of NGO's in Afghanistan), la coalizione europea delle Ong attive in Afghanistan, sta preparando un documento per la presidenza spagnola della Ue che sarà ospitato in un forum sul diritto umanitario. E' in preparazione del Comitato europeo sulla politica e la sicurezza (Pesc) che si tiene a fine mese. Il dossier fa un quadro a tinte fosche dello spazio umanitario in Afghanistan già oggetto di una lettera inviata, sempre da Enna, al nuovo rappresentate della Ue a Kabul, il lituano Vygaudas Usackas.
Secondo Enna e sebbene i dati parlano da soli (mortalità materna al 16 e infantile al 129 per mille, malnutrito un bambino su due sotto i cinque anni e un aumento delle vittime civili della guerra del 14% rispetto all'anno precedente) c'è una scarsa sensibilità dei donatori su questi fronti eminentemente umanitari. Ma su altri non va meglio: in settori come acqua, ambiente e agricoltura, i finanziamenti coprono solo il 42% delle necessità effettive, e solo il...4% nel settore sanitario.
Non c'è però solo un'insensibilità del portafoglio, ossia di carattere quantitativo: c'è un problema di qualità, sia dell'intervento umanitario sia dello “spazio umanitario” in sé, sempre più ristretto e sempre più sotto tiro come il caso di Emergency sembra dimostrare in maniera evidente. Non è una novità.
Nel rapporto del Feinstein International Center (scritto da Antonio Donini nel 2009) si legge a chiare lettere che “...l'umanitarismo è prepotentemente minacciato in Afghanistan. Gli attori umanitari e i loro principi (neutralità, imparzialità, autonomia ndr) sono sotto attacco. La capacità delle agenzie umanitarie di rispondere ai bisogni essenziali (altro imperativo umanitario ndr) è compromesso da fattori interni ed esterni, sia per il modo stesso di operare delle agenzie sul terreno sia per l'estrema fragilità e pericolosità dell'ambiente in cui operano”. Donini rilevava come le Nazioni unite fossero e fossero percepite come “allineate” alla missione militare e come l'avventata chiusura di Ocha (l'agenzia delle “emergenze” dell'Onu smantellata nel 2002 e ripristinata poi a fine 2008) avessero reso reso più fragile una situazione già complicata da un quadro di paesi donatori e belligeranti allo stesso tempo.
Le Ong europee e quelle italiane insistono su diversi punti di crisi dello spazio umanitario, in primis sulla militarizzazione dell'aiuto, figlia dell'inedito sposalizio tra azione umanitaria e operatività belligerante, in una pericolosa confusione di ruoli. Un'altra preoccupazione riguarda invece la mancanza di serie, autonome e affidabili informazioni che non siano viziate da un'analisi di parte. Infine, anziché favorire la protezione degli aiuti – il mantra delle autorità militari – la militarizzazione di intere zone, finirebbe col negare l'accesso agli attori umanitari, con rarissime eccezioni. Una a caso? L'ospedale di Laskhargah nell'Helmand, regione off limits.
In tutto questo l'Italia?
Mentre l'inviato speciale Massimo Iannucci viaggia per Kabul con una lettera in tasca del ministro Frattini per Karzai, nel Belpaese ancora non si è spenta la polemica per le incaute parole del ministro appena saputo dell'arresto: quella presa di distanze apparsa stonata e certo poco allineata a una linea di difesa, senza se e senza ma, sia dei residenti italiani all'estero sia dello spazio umanitario. La lettera di Frattini, con cui dopo la sua uscita su Facebook cerca di rimediare alla levata di scudi, è già oggetto di critiche. A Kabul dicono che non era da lui che quella lettera andava firmata ma da Berlusconi. Karzai, dicono le fonti locali, potrebbe indispettirsi e giocare la parte del duro ben sapendo che, come Frattini stesso ha fatto capire, lo spazio umanitario non sembra una priorità degli Stati. Roma dal canto suo ha sempre sposato l'ipotesi “sistema Italia”, dove aiuto umanitario e missione militare si confondano in un'orgia di tricolore. E l'indice dei critici è puntato proprio sulla scelta di voler investire praticamente tutti i fiondi di cooperazione a Herat, dove c'è il contingente italiano. E che è anche la provincia...con meno necessità.
La vicenda di Emergency ha dunque un retroterra fangoso per gli umanitari, già indispettiti dalla polemica che, nel febbraio 2009, fu innescata dall'invito dell'ambasciata italiana a Kabul di evitare il paese a causa del deterioramento delle condizioni di sicurezza. Con la proposta di ritirare il personale italiano, lasciando i progetti in mano solo a quello locale. Un'eventualità, si disse allora, che non solo avrebbe esposto gli operatori afgani, privati della protezione degli internazionali, a rischi maggiori di quelli che già correvano. Ma che sembrava voler ridurre l'intervento italiano nel paese al solo ambito militare. Una polemica che, allora, era andata di pari passo con quella sul rifinanziamento della missione militare da cui, in un primo momento, erano spariti i fondi destinati esplicitamente alle attività di carattere civile, circa 100 milioni (in parte reintegrati).
Il quadro umanitario italiano è per altro frammentato: le Ong che fanno parte di un coordinamento sono soltanto tre. Molte altre (Emergency è la più nota ma ve ne sono a decine) agiscono per proprio conto usufruendo, questo va detto, dei buoni auspici dell'ambasciata che una mano non la nega mai. Ma è un quadro di riferimento, di scelta politica sulla protezione dello spazio umanitario ciò che manca. Responsabilità delle sole Ong o anche di un Palazzo disattento alle ragioni degli umanitari? Sempre scomodi per altro, come nel caso di Emergency.
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