L'Afghanistan come l'Italia, Kabul come Roma? A meno di dieci giorni dalla “giornata del silenzio” che ha attraversato quotidiani, Tv, radio e siti internet italiani contro il ddl Alfano, adesso i giornalisti afgani stanno per muoversi nella stessa direzione. Per un'intera giornata, spalleggiati da un consistente gruppo di associazioni della società civile, i quotidiani afgani rischiano di uscire con le pagine bianche mentre a radio e Tv spetterebbe oscurare le notizie in voce e i servizi filmati nelle ore tradizionali del notiziario. Con un messaggio che, grosso modo, suona così: “Senza una legge sull'informazione non avrete l'informazione di cui avete bisogno”.
La corsa a un'edizione afgana della giornata del silenzio è già cominciata e oggi pomeriggio a Kabul dovrebbero essere definite modalità, tempi e date di una campagna di stampa che si preannuncia una novità assoluta in Afghanistan.
Sembrano divertiti i giornalisti afgani che, in una delle riunioni preliminari di questi giorni, accolgono il collega italiano con la simpatia per chi combatte una battaglia comune: perché fin qui sono arrivati gli echi dei post it, dei siti listati a lutto, delle pagine bianche che hanno costellato l'italica opposizione alla legge bavaglio. Qua però, la lotta che, come avviene da noi, avrà nel black out dei media solo l'inizio di una lunga campagna, non è contro una legge ma per averne una. In Afghanistan l'accesso all'informazione pubblica è infatti praticamente inesistente. Il che non riguarda solo la legge sui servizi segreti, così segreta, come i servizi stessi, che non si può sapere cosa reciti: qui è un segreto il catasto, gli archivi, la documentazione di base. Non parliamo poi di poter visionare il decreto che, ad esempio, ha appena regolato il trasferimento delle competenze ai cinesi per gli sfruttamenti minerari. Ce n'è dunque per tutti: dal giornalista d'inchiesta al comune cittadino che vorrebbe sapere qualcosa del suo certificato di proprietà fondiaria, uno dei drammi dell'odierno Afghanistan dove la guerra ha dato una mano a distruggere il fragile catasto messo in piedi a suo tempo dall'ultimo re, Zaher Shah.
In queste ore, e sfruttando abilmente la presenza della stampa estera (in questo momento nutrita schiera per via della Conferenza dei donatori che si svolge martedi a Kabul), si fa la conta. L'altro ieri mattina è arrivata l'adesione di Tolo Tv, il colosso mediatico cui il New Yorker ha appena dedicato un servizio chilometrico. Ci sono già Saba, Outlook, Killid Group, Internews, Afghan Melli, per citare alcune tra le testate, in dari pashto o inglese, che già hanno aderito. Con gli altri è passa parola, telefonate, e-mail, riunioni. Ma non ci sono solo agenzie, Tv, quotidiani e radio. La pattuglia della società civile è consistente: Afghan Women's Network e Women lawyer association – per citarne alcune – Integrity Watch Afghanistan, il Forum della società civile Acsf (che tiene un incontro pubblico in questi giorni). Per ora non c'è stranamente Acbar (le rete di Ong afgane e internazionali) mentre è invece tra i promotori la Cshrn, network che si occupa di diritti umani e che dal 2006 sta lavorando a un disegno di legge che giornali e cittadini vorrebbero discusso in parlamento. Il draft della legge sta già circolando e dovrebbe essere ultimato per metà marzo 2011. C'è tempo dunque perché il parlamento decida di accoglierlo e discuterlo. Ma c'è anche tempo per fare pressione per dotare l'Afghanistan di una legislazione adeguata sull'accesso all'informazione.
Chissà che Kabul non finisca per dare una lezione a Roma.
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