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sabato 17 luglio 2010

IL MESTIERACCIO DELL INVIATO

Brutta bestia il mestiere dell'inviato! Del resto si potrebbe anche dire, nel mio caso, che nessuno me lo ha chiesto di venire sin qui dove, davanti alla finestra del mio balcone, campeggiano una quarantina di sacchetti di sabbia e sotto, alla porta di ingresso, ci sono un paio di Ak47 che, sommati a quelli nella via antistante il mio albergo, fa una densità di armi a metro quadro che mi dà allo stomaco.

Ma la passione non smette di bussare al cuore di un mestiere che continua a piacermi e che, all'estero, mi riempie di adrenalina, appena un po' meno di qualche anno fa quando, un po' più ansioso e smanioso, il solo varcare l'uscita dell'aeroporto mi faceva fremere come un'amante alla sua prima uscita con la donna di cui si è invaghito.

Come nei grandi amori, col tempo, la passione forse si raffredda un po' ma non si spegne. Controllate il vostro taccuino, se avete la penna e il telefono carico, due spicci in tasca e le pile nel registratore. E via, per la città dolente in cerca di notizie. Il bello è che, girato l'angolo, ne trovate subito una. Il caso gioca la sua parte assai più del fiuto e poi c'è la curiosità, l'annotazione silenziosa di quell'immagine, la frase carpita per strada, la battuta rivelatrice. Elettrizzati, correte di qua e di là fino a che, ma ci son due ore e mezza di vantaggio sul fuso orario italiano, non viene il momento di scrivere, di ordinare le idee e metterle in file, di coniugare le notizie con l'analisi e, soprattutto, il buon senso, l'unico porto sicuro nella mare di fesserie che la propaganda vi propina quotidianamente in una paese in guerra.

Ma la vostra personale battaglia, subito dopo, è con Roma o con Milano. Con i desk dei giornali da cui dipende (ormai sempre di meno) parte del vostro salario. Con i capiservizio che, poveretti anche loro, devono fare i conti con la maledizione delle notizie e che oggi, per voi, non hanno spazio.

Da che sono a Kabul, il meglio di quel che ho scritto giace nel cassetto di qualche redazione. Se non avessi un blog dove rovesciare la mia logorroica esposizione dei fatti finirei per implodere. Per un giornalista, scrivere è come la caccia per la leonessa. Ma vedersi pubblicare il pezzo è il vero trofeo che portate a casa. L'orgasmo della vostra masturbazione intellettuale o del rapporto, intimissimo, che si è stabilito tra voi e la realtà. Come la leonessa però, avete vinto solo se il pezzo va in pagina, così come lei, dopo la corsa, può pascersi delle carni della bestia che ha catturato. Così restate frustrati se non accade nulla, se la vostra notizia (la “vostra” notizia non quella ricopiata dalle agenzie) non trova spazio e, come si dice in gergo, si brucia. Come una sigaretta che non viene aspirata ma si consuma sottoposta alle leggi della chimica.

Ieri però hanno ferito tre poveri cristi con la divisa italiana nell'Herat e allora tutti si svegliano. Ti chiamano, vogliono il pezzo di giornata anche se tu sei a Kabul, non a Herat. Non hai visto niente e ne sai meno di un collega che, stando in Italia, può parlare con lo stato maggiore e carpire qualche dettaglio. Poveri soldati. Poveri giornalisti. Attori entrambi di un teatrino demenziale. Io ci ricavo però che i miei pezzi nel cassetto usciranno d'appoggio alla cronaca di giornata. Che grazie a Dio ieri ha fatto qualcun altro

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