(segue da ieri)
Chi si aspettava un annuncio in pompa magna sul ritiro delle truppe rimane deluso, ma chi sa leggere con attenzione le peripezie semantiche della diplomazia, qualche spunto invece lo trova: dire infatti che tra tre anni tutte le operazioni militari passeranno sotto l'egida dell'esercito nazionale, se non significa esattamente che la Nato se ne sarà andata, apre la strada all'exit strategy, a quel passaggio di consegne che dovrebbe avvenire nel giro di 36 mesi. Quando esercito e polizia afgani, ora a quota 300mila uomini, dovrebbero contare su una forza di 400mila. E' anche un modo di dire “non vi lasceremo soli ma dovrete cavarvela. Noi, torniamo a casa”.
In questa forma però nessuno lo dice e anzi Rasmussen, a capo della Nato, smentisce questa interpretazione. Kouchner, il titolare degli Esteri francese, ribadisce che “si resterà sino a che e necessario”. Ma son formule vaghe, come quella che impiega Franco Frattini: “l'impegno militare non può essere a tempo determinato”. Il messaggio tra le righe per altro sembra dire che transizione significherà anche disimpegno. Più in là però non si va. Ma persino Hillary Clinton, che pur non si sbilancia su una data finale, ribadisce che nel luglio 2011 il ritiro americano comincerà. Che altro? Poco. Solo qualche spunto.
C'è una parte, probabilmente cacciata dentro a forza da Unama, la missione Onu che ha raccolto le suggestioni della società civile, dedicata ai diritti delle donne. C'è un capitoletto sulla giustizia che dice che entro sei mesi ci sarà finalmente un codice penale (pare che sia stata l'Italia a inserirlo, ma Frattini non lo ha rivendicato). C'è anche un accenno alle elezioni: ma manca la data (dovrebbero essere a settembre) e, paradossalmente, questa sacra istituzione della democrazia finisce....al punto trentuno (il penultimo!) del documento finale.
Una parte sostanziale riguarda invece la trattativa coi talebani. In effetti il documento appoggia i risultati della Jirga di pace, da poco tenutasi a Kabul, e cioè il piano di Karzai per il reintegro di 36mila combattenti. Ma nulla si dice su come va condotto, e con chi, il negoziato politico.
Tutti sanno che Washington finora e stata contraria a trattative con la cupola talebana, contro i voleri di Karzai, dei britannici e del Pakistan che si sta proponendo come mediatore. Dalla Conferenza non esce nulla a riguardo anche se, nel pomeriggio, il quotidiano The Guardian dedica un titolo a una chiacchierata con fonti anonime di Washington, secondo le quali gli Stati uniti starebbero cambiando idea. Ma è una mezza novità visto che la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato e il Pentagono mandano segnali contrastanti. Per una Clinton che si presenta paladina dei diritti delle donne e gioca il ruolo della colomba alla Conferenza, c'è un generalissimo, David Petraeus, che ha appena fatto digerire obtorto collo a Karzai l'istituzione di una milizia civile anti talebana su stile iracheno (non l'optimum per favorire un negoziato) e che continua a promettere spallate militari per “negoziare da una posizione di forza”. Situazione confusa.
La giornata si conclude invece con una vittoria “militare” di Karzai. I talebani non si fanno vivi. Nella notte c'è una sparatoria e il lancio di qualche razzo ma la guerriglia non fa, o non riesce a fare, lo spettacolo eclatante che le era riuscito alla Jirga di pace, quando aveva colpito a pochi metri dal tendone assembleare proprio quando toccava a Karzai parlare.
La vittoria politica c'è anche quella, ma molto edulcorata. E colpisce, nella conferenza stampa finale di Karzai e Ban Ki-moon, la loro capacità di non dire nulla e di eludere elegantemente le domande dei giornalisti. La guerra, convitato di pietra, resta fuori dalla porta. Nessuno la nomina mai e si finge che il futuro sia roseo. Nelle strade di Kabul invece appare opaco, come la nuvola di polvere e smog che ammanta la città. E la fine della Conferenza.
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