Da piccolo(e lo sono restato da adulto) ero un grande divoratore di mais:pannocchie, in una parola. Quel frutto giallo dorato con barba rossa che, a maturazione, diventa nera. Ma non è il mais dolce il mio preferito, quelle confezioni sudaticce che trovate sotto vuoto nei supermercati. Adoro la pannocchia coltivata per il bestiame, di cui la pianura padana, mia terra d'origine è sommersa durante l'estate. Un senso di ricchezza con tutto quel ben di Dio attorno che io, mia sorella Claudia e mio fratello Marco Tullio, trasformavamo in una merenda prelibata e divoravamo abbrustolite sul gas, cotte nell'acqua bollente o saltate in padella (i “granini”), rosolate nell'olio e rosmarino o, delizia, nel burro.
Questa passione – e la stagione è quella giusta – mi ritorna in Afghanistan dove se ne fa un discreto consumo. Bollite certo (ma più rare), ma abbrustolite soprattutto (la loro morte) con una modalità geniale. Sul gas infatti, o anche sulla brace, le pannocchie si arroventano, ne scoppia il chicco (va raccolta quando il seme è immaturo e “fa il latte” se schiacciato con l'unghia) e acquistano quel sapore bruciaticcio che può guastare il ricordo della vostra madeleine padana. Qui hanno inventato un sistema che evita l'inconveniente. E che solo qui ho visto.
In una largo paiolo, una sorta di wok locale sospesa sul calore delle braci ospitate in un carretto ambulante, viene messa ad arroventarsi una miscela di sabbia e sale. Ben calda che è questa malta secca, ci si infila la pannocchia e la si fa abbrustolire avendo cura di rigirarla di sovente. Quand'è cotta, coi grani tutti ancora interi e salati, un colpetto sulla superficie fa cadere la sabbia che, tra l'altro, ha levigato la pannocchia levandole ogni residuo di barba! A un costo variabile tra i 10 e i 20 afghanis (tra un quinto e un quarto di dollaro: il secondo è un tourist price ma spesso dipende anche dalla qualità della materia prima) ecco un pasto delizioso condito di ricordi della mia infanzia. Forse anche di quella di alcuni di voi.
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