A rompere il plumbeo silenzio dell'alba in questi giorni ci hanno pensato razzi lanciati dalle montagne attorno alla capitale e ordigni rudimentali sulle strade della periferia. La guerriglia tiene la città sotto tiro anche se sempre meno riesce a entrare in centro. Quanto alle bombe mediatiche, non sono mancate. Veicolate dal Washington Post ieri mattina e da Al Jazeera due giorni fa, hanno rilanciato le ipotesi, i “si dice”, le possibilità che, seppur ancora sotto traccia, il negoziato tra Karzai e i talebani “veri” sia cominciato. Anzi, secondo il Post questa volta ci sarebbe proprio la luce verde da Quetta e mullah Omar starebbe trattando un esilio dorato nel Golfo. Ma il condizionale resta d'obbligo, in questa messe di rumor, voci e boatos, termine che in dari si potrebbe tradurre con awaza sara chok (i linguisti mi perdoneranno la forse errata trasliterazione!).
A Kabul sul negoziato si respira un certo scetticismo. Anche perché, se le voci sugli incontri si susseguono, di certo c'è poco. E l'unico fatto che parla chiaro, senza tante elucubrazioni, è il Consiglio superiore di pace che Karzai ha appena varato per guidare la trattativa ma che, appena pubblicato, ha visto finire sotto accusa la maggioranza dei 68 membri che lo compongono: warlord con fedina non illibata, amici del presidente o suoi oppositori e tutti assai indigesti ai talebani. “Come si fa – dice un analista afgano – a trattare con uomini che appartengono all'Alleanza del Nord, i loro peggior nemici”?
L'articolo del Post era stato preceduto da uno “scoop” di Al Jazeera, che poi si è molto ridimensionato. In un hotel della capitale la tv del Qatar scopre un incontro “segreto” tra emissari di Karzai, di Islamabad e dei talebani. Ma in realtà si tratta del cugino del presidente, di un ex ministro talebano ormai passato col governo e, questa sì la novità, di tre inviati pachistani di rango anche se “non ufficiali”. La riunione viene poi declassata, chissà se per dissimulare il vero intento, a seguito dei lavori della conferenza tra i due Paesi tenutasi a Dubai. C'è infatti anche un contenzioso sul passaggio dei tir diretti da Est in Afghanistan che, passando dal passo di Khyber, nonostante un recente accordo benedetto da Hillary Clinton, i pachistani si ostinano a fermare; facendo scaricare tutte le merci che devono poi essere ricaricate su camion afgani (ieri era tra l'altro il settimo giorno del blocco pachistano ai rifornimenti per la Nato in Afghanistan). Avranno parlato d'altro?
In effetti il Pakistan, dice la maggior parte delle fonti, fa il diavolo a quattro per essere il verso snodo del futuro negoziato. Islamabad controlla la rete estremista degli Haqqani, ha buone relazioni con Hekmatyar e ospita a Quetta mullah Omar. Chi meglio di loro?
Il Post fa tutt'altra ipotesi e sembra privilegiare la pista saudita e Dubai come sede prediletta. Spiega che mullah Omar sarebbe preoccupato della piega che sta prendendo il conflitto e, in particolare, della troppa autonomia di cui si fanno forti gruppi più radicali. Ipotesi possibile e che dunque tornerebbe con la preoccupazione generale che la bilancia negoziale penda troppo dalla parte pachistana, una parte pericolosa perché vorrebbe guidare tutto il gioco in proprio. Un diplomatico occidentale ci spiega che “fu proprio Islamabad a far fallire, due anni fa, la mediazione saudita ma – aggiunge – pur di fare la pace, Karzai adesso è disposto a trattare con Islamabad. Costi quel che costi”. E gli americani?
Il Post, e non è l'unica voce a dirlo, sostiene che Washington è più che mai convinta che si debba negoziare ma è facile comprendere la difficoltà di far coincidere l'alleanza con sauditi e pachistani con la diffidenza d'obbligo nei confronti di due partner che giocano in proprio. Karzai intanto attraversa un momento difficile e un funzionario locale ci conferma “che passa da un umore all'altro, oggi piange domani accusa, ora dice una cosa, ora un'altra”. Nondimeno la gente sta con lui: “il presidente è una brava persona”, è il commento generale dell'uomo della strada. E ha fatto diversi colpacci ad effetto criticando i paesi stranieri colpevoli di far solo “i loro stessi interessi”, argomento nazionalista che fa colpo nel pashtun di Kandahar come nel tagico di Kunduz.
Ma è comunque sotto tiro: è stressato e tirato per la giacca nel difficile equilibrio tra l'attitudine muscolare del generale Petraeus e l'orientamento delle colombe di Washington, le attenzioni dell'Onu e le critiche serrate delle organizzazioni della società civile che, pur appoggiandolo, non si risparmiano. Due giorni fa le maggiori reti di queste nuove organizzazioni nate nel calderone della guerra, e che rappresentano il segmento progressista e intellettualmente avanzato della società, gli hanno chiesto apertamente di buttare a mare la sua lista di nomi del Consiglio di pace: gli hanno detto che gli “accusati di violazioni dei diritti umani e di crimini di guerra” andrebbero sostituiti con “esperti di grande esperienza nella risoluzione dei conflitti, e nei processi di mediazione e riconciliazione”. Invece, dicono, nel Consiglio c'è gente che ha “una miglior esperienza nella guerra che non nella pace” e che può dunque minare “la fiducia degli afgani e della comunità internazionale” nell'intero processo.
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