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venerdì 24 dicembre 2010

AFGHANISTAN, COSA C'E' SOTTO L'ALBERO

La rivisitazione della strategia per l'Afghanistan della Casa Bianca presentata il 16 dicembre a un anno da quando Obama annunciò per la prima volta la data d'inizio del ritiro delle truppe, non presenta grosse novità. Semmai diverse lacune e omissioni che stampa e osservatori hanno fatto notare sin dalle anticipazioni apparse sul NewYork Times attraverso le cinque pagine di sommario dell'atteso dossier. Inoltre, proprio nelle stesse ore, due rapporti riconducibili al National Intelligence Estimates (Nie), dunque a sedici agenzie di intelligence americane, mettevano nero su bianco quanto Obama aveva preferito omettere, ossia il ruolo di Islamabad e la fragilità del governo Karzai. Elementi che l'intelligence americana ha accorpato chiarendo che, con un governo debole e corrotto a Kabul e senza un maggior impegno di Islamabad, assai riluttante ad applicarsi, ogni sforzo militare americano appare destinato al fallimento.

Obama ha scelto di mostrare il bicchiere mezzo pieno: via dall'Afghanistan con inizio del ritiro riconfermato a luglio 2011 ma lasciando con “responsabilità” un Paese dove Stati uniti e Nato stanno comunque facendo progressi. Indeboliscono Al Qaeda – dice il dossier - tengono sotto scacco i talebani e aumentano il controllo del governo sul territorio, mentre l'esercito afgano cresce a ritmi più elevati di quanto la Nato stessa non prevedesse (raggiunto l'obiettivo di 134mila soldati e 109mila poliziotti sul cui grado di preparazione è bene però avanzare qualche riserva). Ma per dirla con Kate Clark, ricercatrice di Afghanistan Analyst Network (un autorevole think tank afgano), Obama ha dipinto uno scenario “luccicante quanto irreale” che non si vede come possa garantire “pace e stabilità” in un paesaggio che ha visto nell'area di Kandahar aumentare la violenza, fallire il tentativo - “strombazzato all'inizio dell'anno” - di portare lo Stato nel distretto di Marjah (obiettivo dell'Operazione Moshtarak nell'Helmand) e dilagare le attività insurrezionaliste “sia nel Nord sia nelle regioni non pashtun”.

L'impietosa analisi di Klark dimostra almeno due cose: la prima è che c'è una notevole discrepanza da quanto si scrive nei rapporti e la realtà sul terreno. La seconda mette in luce, se mai ve ne fosse bisogno, di quanto l'Amministrazione sia divisa al suo interno sul da farsi in Afghanistan (e Pakistan). Una situazione complicata dalla scomparsa di Richard Holbrooke, il negoziatore per eccellenza che, per la, verità, era sembrato negli ultimi mesi piuttosto in ombra (forse per via di una malattia che ha richiesto alla fine un intervento di oltre venti ore con esito negativo), oscurato nelle dichiarazioni e nelle apparizioni pubbliche dal roboante generale David Petraeus che comanda dall'estate scorsa le truppe Nato e quelle americane in Afghanistan.

Per quanto è dato sapere la situazione sul terreno è peggiorata. Non lo dicono solo le cronache giornalistiche ma almeno due dossier di organizzazioni umanitarie che, non meno dei militari – che preferiscono però oscurare gli insuccessi – hanno il polso della situazione. Secondo il Comitato internazionale della Croce rossa (Icrc) le condizioni per portare a termine il suo mandato non sono mai tanto critiche negli ultimi trent'anni. L'Icrc ha fatto un quadro, a metà dicembre, nel quale lamenta la crescita degli sfollati, l'aumento delle vittime civili e condizioni sanitarie critiche. Confermando che intere aree del Paese, anche nel Nord, sono inaccessibili all'azione umanitaria. Il mese prima, 29 organizzazioni umanitarie afgane e internazionali hanno sottoscritto un documento, elaborato da Oxfam e preparato per il vertice Nato di Lisbona del 19-20 novembre, in cui si mette il dito nella piaga della protezione dei civili afgani. Che non solo è disattesa ma che non sembra considerare l'effetto e l'impatto diretto sui civili della nuova terapia muscolare imposta da Petraeus. Secondo il dossier (Nowhere to Turn) gli aerei americani hanno sganciato tra bombe e missili 2100 ordigni solo tra giugno e settembre, con un incremento di circa il 50% rispetto all'anno precedente e con un aumento dell'11% delle vittime civili rispetto all'anno precedente.

Questi numeri (anche se i talebani restano la causa maggiore delle vittime civili) portano dritto alla seconda questione che riguarda l'equivoca strategia dell'Amministrazione americana. Se fino alla permanenza in carica del generale McChrystal (il predecessore di Petraeus) l'opzione militare e quella diplomatica sembravano correre su binari quantomeno paralleli, con l'arrivo di David le cose sono cambiate. Se McChrystal aveva addirittura modificato le regole d'ingaggio per evitare un aumento delle vittime civili, se aveva utilizzato i bombardamenti con maggior attenzione al target, se aveva scelto di andare sempre a braccetto con Karzai e di conquistare i capi tribù con l'appoggio del presidente, Petraeus ha invertito la rotta che, fino al suo arrivo, era sembrata la stessa scelta da Obama. Convinto, assai più di McChrystal che per trattare coi talebani bisogna farlo da una posizione di forza limitando le perdite americane, Petraeus ha ripreso i bombardamenti con maggior vigore e senza andar troppo per il sottile. I suoi rapporti con Karzai sono pessimi e il generale non lo nasconde. Raramente si fanno fotografare assieme e al dialogo coi capi tribù Petraeus ha preferito, e imposto al governo afgano, di armare gruppi di milizie di villaggio. La cosiddetta “opzione irachena” tanto cara al generale quanto invisa agli afgani e a molti diplomatici europei. Il problema è che i risultati sul terreno sembrano gli stessi, anzi assai meno, di quelli accertabili sei mesi fa.

In mezzo al guado militare sembra intanto annaspare anche l'opzione negoziale. Dopo la batosta del falso talebano Mohammed Mansour (un commerciante di Quetta spacciatosi per un uomo della cupola di Omar con fattura da 65mila dollari per ogni incontro con Karzai), a tutti è apparso chiaro come il negoziato di pace, sbandierato con grande enfasi un paio di mesi fa, tutto fosse se non un pio desiderio. E a dare retta ad Ahmed Rashid, che in un recente articolo sul New York Review of Books ha scritto un possibile decalogo di come andrebbe articolata una trattativa (The Way Out of Afghanistan), nell'Amministrazione americana non c'è nessuna strategia a riguardo, in attesa forse che Petraeus ottenga sul piano militare quel che non si riesce a imbastire sul piano politico. Se a ciò si aggiunge che insistenti boatos vogliono che Obama, nella sua recente visita di sei ore a Bagram nella notte tra il 3 e il 4 dicembre, abbia incontrato non Karzai, con cui si è intrattenuto al telefono per 15 minuti, ma addirittura Abdullah, ossia il capo dell'opposizione al presidente, e alcuni ministri ed ex ministri del gabinetto Karzai, il quadro appare ancora più a tinte fosche. Dopo averlo appoggiato, screditato e poi ancora sostenuto, adesso Karzai è tornato di nuovo nel frullatore e si starebbe pensando, in barba alle elezioni che lo hanno riconfermato, di farlo uscire di scena.

In questa cornice
che la “Strategic Policy Review” del presidente fosse acqua fresca non ha stupito ma resta un pessimo segnale. Se nemmeno l'attore maggiore del conflitto ha le idee chiare, si divide tra falchi e colombe, negoziatori e cow boy, filo Karzai e anti Karzai, non c'è bisogno di aspettare Wikileaks per capire che il decimo anno di guerra rischia di passare com'è passato il nono.

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