Qualche mese prima di essere prescelto da Barack Obama come inviato speciale per Afghanistan e Pakistan, da allora AfPak, Richard Holbrooke aveva già dato la linea con un articolo sul Washington Post: “Il messaggio dev'essere forte e chiaro: democrazia, riconciliazione, militari fuori dalla politica, più democrazia e nuove politiche per le aree tribali (al confine con l'Afghanistan)”. Il diplomatico di rango, già direttore di Foreign Policy, ambasciatore in Germania e all'Onu e, soprattuto, inviato speciale in Bosnia, conosce la sua ultima stagione di attività, dal gennaio del 2009, sul fronte più caldo della guerra americana: l'Afghanistan. Sarà l'ultima battaglia, questa volta persa, del grande negoziatore americano che si è spento per complicazioni cardiache nella notte del 13 dicembre all'ospedale della George Washington University a 69 anni.
Figlio di una famiglia ebrea ma assolutamente laica (il padre aveva mutato il nome originario in Holbrooke al suo arrivo negli Usa dalla Polonia negli anni Trenta), nel 1962, a soli 21 anni, Richard entra nel servizio diplomatico e vine destinato al Vietnam. E' solo un giovane di belle speranze ma riesce ad essere tra gli inviati della delegazione che, a Parigi nel 1968, avvia i negoziati di pace. Per certi aspetti, Holbrooke, l'Asia ce l'ha nel sangue. Fino al 1981 è responsabile per l'Asia orientale e il Pacifico quando a capo del Dipartimento di stato Jimmy Carter nomina Cyrus Vance, con cui condivide la normalizzazione dei rapporti con la Cina anche se l'opposizione tra Vance e il consigliere per la sicurezza nazionale Zbignew Brzezinski mette un po' in ombra il loro ruolo. Subito dopo è ambasciatore a Tokio - pur se per un breve periodo - in omaggio alle sue conoscenze del continente che contemplano persino il vietnamita, studiato prima di prendere servizio nel Delta del Mekong con una permanenza in Vietnam durata sei anni.
Il dovere diplomatico lo porterà poi altrove, soprattutto in quella che sarà la sua missione per eccellenza e che culminerà nel negoziato di Dayton e si concluderà con “To End a War”, un libro sui Balcani che gli varrà, nel 1988 sul New York Times, la menzione tra i migliori libri dell'anno. Il personaggio poi si allontana dalla scena politica primaria e si dedica all'attività privata nella quale si divide tra le consulenze a grossi gruppi come la Lehman Brothers o ad associazioni umanitarie come Refugees International ma senza dimenticare, pur se defilato, di sostenere le campagne presidenziali di Gore e Clinton. Né si può immaginare che il paesaggio politico americano dell'era Bush gli possa offrire un palcoscenico adatto alla caratura di un uomo che preferisce il negoziato alle armi e le parole alla spada: l'uomo che aveva chiesto di far parte dei Peace Corps (un programma per volontari del governo Usa) nel Marocco degli anni Settanta.
La sua stagione di negoziatore politico ricomincia dunque con Barack Obama e Hillary Clinton. La scelta non è casuale: la guerra annaspa nel suo ottavo anno da che i talebani sono stati cacciati nel 2001 e, se non si perde, nemmeno si vince. Obama ha bisogno di dimostrare che l'Amministrazione vuole un cambio di marcia e, soprattutto, far propria la parola d'ordine che ormai regna sovrana e cioè che la sola opzione militare deve essere superata. Obama vuole infine puntare anche sul quadro regionale e in particolare sul Pakistan. Chi meglio dell'uomo che ha convinto Milosevic, che ha trattato con Karadzic, che ha avuto a che fare con cinesi, vietnamiti e russi (il suo ruolo durante la Guerra fredda è innegabile), nemici per eccellenza? Chi meglio di un uomo con fama di negoziatore eccellente, convinto del primato della politica?
Appena Holbrooke viene nominato inviato speciale, tutti emulano la scelta americana. I britannici per primi e poi tutti gli altri, compresi gli italiani (che già ne hanno uno – l'attuale ambasciatore in Corea Sergio Mercuri – ma che si affrettano ad appuntare l'ambasciatore Massimo Attilio Iannucci, ora in partenza per Pechino e adesso sostituito da Gabriele Checchia). Il cambiamento sta tutto li, in quella doppia accezione: Afghanistan più Pakistan che sembra, all'epoca, segnare una svolta che però tarda ad arrivare. “Time” ironizza su un Holbrooke, diventato da opinionista del Post inviato speciale del presidente, con parecchie gatte da pelare in un groviglio pachistano-afgano con molti nodi e un pettine stretto. Da metà del 2009 la stella di Holbrooke pare in effetti già oscurata da quella del generale McChrystal, con la sensazione che, tutto sommato, alla fine anche Obama preferisca dar più retta ai militari che non ai diplomatici. Sensazione che si fa più netta con l'arrivo di David Petraeus, falco in divisa per eccellenza. Il resto è un silenzio anche un po' imbarazzante, gravato fors'anche dalla sfortunata degenerazione sanitaria.
“Fermate la guerra in Afghanistan”, sarebbero state le ultime parole prima di morire. Testamento da negoziatore. Con la sensazione, chissà, di non essere riuscito a fare abbastanza.
(la foto in basso a sn è di R. Martinis)
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