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domenica 20 febbraio 2011

COLLOQUI SEGRETI


Offuscata
e messa in secondo piano dalle vicende mediorientali e del Maghreb, la guerra in Afghanistan continua però ad andare avanti, che i grandi giornali o le tv lo ignorino o meno. Come spesso accade con le cose scomode, le paludi da cui non sappiamo uscire, le difficoltà che sembrano senza soluzione, il silenzio è un'ottima panacea anche se il problema resta insoluto. Eppure, stando al New Yorker, qualcosa sta succedendo. Lo ha scritto Steve Coll, un giornalista americano che ha vinto il Pulitzer, sulle pagine patinate dell'autorevole settimanale che già in passato si è distinto per la lucidità di analisi sull'Afghanistan. Coll sostiene che personaggi dell'establishment americano che vi hanno partecipato di persona, gli hanno raccontato di colloqui sotto traccia tra talebani e americani.

Coll ricorda che proprio i talebani indicarono nei colloqui diretti col nemico numero uno la strada da intraprendere e da preferire a quella sorta di pasticciaccio messo in piedi dal presidente Karzai che ha affidato un Consiglio per la riconciliazione nazionale a uno dei peggiori nemici dei talebani, l'ex presidente Rabbani, e che ha inserito nell'organismo che dovrebbe avviare i colloqui di pace personaggi controversi e screditati.

Se è vero quanto il New Yorker racconta c'è dunque una piccola svolta anche se negoziati diretti tra guerriglia e statunitensi rischiano di creare problemi proprio a Karzai che è il presidente - più o meno legittimato da un voto assai controverso – e dunque l'unico ad aver titolo a guidare un processo che dovrebbe riguardare soprattutto gli afgani. Insomma la cosa è complicata e per adesso se ne sa davvero poco. Ma perché talebani preferiscono gli americani a Karzai?

I talebani
non hanno mai nascosto ciò che pensano del governo di Hamid Karzai: corrotto, come dimostrano gli scandali bancari che coinvolgono la sua famiglia, eticamente discutibile agli occhi di una guerriglia motivata religiosamente ma, soprattutto, pupazzo degli eserciti occupanti. Il ragionamento non fa una grinza: a che serve negoziare con un burattino? Inoltre i talebani sanno che gli Stati Uniti hanno maggior capacità di pressione sul Pakistan la cui ingerenza negli affari afgani, lo si creda o no, dà fastidio anche alla guerriglia in turbante.

Come andrà a finire resta tutto da vedere ma qualcosa insomma c'è. Coll attribuisce la svolta a Richard Holbrooke, l'inviato speciale di Obama morto qualche mese fa e che credeva nel primato della politica, dunque del negoziato, anziché in quello delle armi. E nel suo articolo Coll ha ricordato anche che in Vietnam, prima di arrivare agli accordi di Parigi del 1973 che posero le basi per la fine della guerra, si cominciò a negoziare, tra vietnamiti e americani, nel 1968: cinque anni prima. Tempi lunghi dunque e molta cautela. Ma una notizia che forse valeva davvero la pena di sottolineare anche se i frutti, se davvero sta accadendo qualcosa, si raccoglieranno molto più avanti

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