Visto
dall'Europa e visto dall'Afghanistan il summit dell'Alleanza si
trasforma in una morsa che non lascia via d'uscita a Kabul. E gli Usa
dettano l'agenda
A quattro mani con Giuliano
Battiston da Kabul
Visto
dall'Europa il vertice dei ministri degli Esteri della Nato
conclusosi ieri a Bruxelles, cui ha partecipato anche il capo della
diplomazia russo Lavrov, si può vedere in tanti modi ma
essenzialmente come il tentativo di rilanciare il ruolo di
un'Alleanza in cerca sempre di qualche nemico da combattere, dopo che
anche al vecchio orso post sovietico s'è teso il ramoscello di
ulivo. Il summit non sembra aver partorito granché anche se c'era
molta attesa sull'Afghanistan, un tema alla fine un po' defilato e
sui cui la Nato sembra per ora soltanto prendere tempo.
Su
un altro fronte, quello delle relazioni internazionali,
l'organizzazione diretta da Rasmussen fa di tutto per mostrare
muscoli e competenze anche dove non le ha. Affronta il dossier
siriano, bacchetta la Georgia, sigla infine un accordo con Mosca con
cui avvia un progetto pilota per l'eliminazione di munizioni obsolete
nella regione di Kaliningrad, progetto che sarà pagato attraverso un
fondo fiduciario spalmato su cinque anni e stimato a circa 50 milioni
di euro. Sorrisi col vecchio nemico che purtroppo non c'è più,
tanto che l'Alleanza ha dovuto trasferirsi cinquemila chilometri più
a Est per impantanarsi in Afghanistan dove ora vuole restare ad ogni
costo, salvo minacciare di volersene andare con armi e bagagli dopo
il 2014. Che non lo voglia affatto fare è in realtà così evidente
che nemmeno lo spauracchio di chiudere baracca risulta credibile, a
maggior ragione se è vero quanto una fonte anonima ha spifferato
alla viglia del summit a RadioFreeEurope. E cioè che, appena Kabul
avrà firmato il patto bilaterale strategico militare con gli Usa
(Bsa), anche la Nato proporrà il suo a Kabul, che includerebbe l'uso
di quattro basi militari permanenti.
Rasmussen
nel suo discorso è stato abbastanza chiaro: di basi non ha parlato
ma di status giuridico delle truppe sì e anche del denaro che i
Paesi dell'Alleanza si sono impegnati a versare ogni anno
all'esercito afgano (4,1 miliardi di dollari di cui 2 solo dagli
Usa). Poiché il suo discorso è stato preceduto dalle minacce sia di
John Kerry sia dello stesso Rasmussen sul rischio che, senza una
rapida firma del Bsa, anche l'impegno della Nato si possa dissolvere,
il segretario generale dell'Alleanza ha messo sul piatto della
bilancia le stesse argomentazioni degli americani. Niente firma con
gli Usa, niente firma con la Nato. Niente firma, niente soldi. E se
firma sarà, sia un impegno su uno status giuridico che offra ai
soldati della Nato la stessa immunità che il Bsa garantisce ai
soldati americani.
Approfittando
del timore che gli afgani nutrono, dai loro governati al ciabattino
di Kabul, che l'uscita di scena degli eserciti stranieri equivalga a
un oblio del Paese, al taglio dei fondi e al rischio che ritorni la
guerra, americani e Nato giocano la stessa partita. Che, con altre
parole, si potrebbe chiamare senza troppi giri di parole “ricatto”.
Senza stipendi per l'esercito, le forze di sicurezza afgane si
scioglierebbero come neve al sole come già accadde coi soldati di
Najibullah (il capo di Stato filosovietico che aveva visto
materializzarsi il ritiro dell'Armata rossa nell'89), quando l'Urss
tagliò i fondi al governo di Kabul, sacrificato dal nuovo corso
della perestroika e dalla fine della Guerra fredda. Najibullah
resistette tre anni ma poi dovette cedere ai mujaheddin, scalzi ma
ben riforniti di risorse occidentali e saudite. Una vicenda non così
lontana, che l'establishment e l'uomo della strada ricordano bene.
Ascoltate
a Kabul, le parole di Rasmussen suonano minacciose ma non
sorprendenti. Perché confermano il tono dominante della dialettica
Afghanistan-Western powers degli ultimi giorni: da quando, domenica
24 novembre, Karzai ha inaspettatamente deciso di posticipare la
firma dell’Accordo bilaterale con gli americani, non ha ricevuto
che colpi bassi. A mettere subito le cose in chiaro sui rapporti di
forza è stata Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale del
presidente Obama, spedita a Kabul in tutta fretta a incontrare
Karzai. Il 26 novembre, il giorno successivo all’incontro con il
presidente afghano, la Casa Bianca ha diramato una nota d’agenzia
sui contenuti del colloquio, molto netta: «L’assenza di un Accordo
bilaterale di sicurezza – così recita l’a nota - metterebbe a
rischio gli impegni di assistenza assunti dalla Nato e dalle altre
nazioni nelle conferenze di Chicago e di Tokyo del 2012.
L’ambasciatrice Rice ha ribadito che, senza una veloce approvazione
del Bsa, gli Stati Uniti non avrebbero altra scelta che iniziare a
pianificare un futuro post-2014 in cui non ci siano truppe americane
o della Nato in Afghanistan». In altre parole, per gli americani non
c’è alternativa. O Karzai firma l’accordo, oppure non resta che
la cosiddetta opzione zero. Ed è qui che una scelta politica diventa
ricatto: nell’opzione zero gli Stati Uniti non fanno rientrare
soltanto il ritiro completo dei soldati (americani e della Nato tout
court, come se le due cose si equivalessero), ma il ritiro di tutti i
soldi promessi all’Afghanistan, sia in ambito militare sia civile.
Nessuno,
tra i rappresentanti dei 49 paesi che compongono la missione Isaf, ha
obiettato nulla sull’arbitraria confusione tra impegni in ambito
militare e in ambito civile. Nessun governo – tanto meno quello
italiano, subalterno alle politiche atlantiche – ha avuto il
coraggio di assicurare il proprio impegno all’Afghanistan, con o
senza gli Stati Uniti, con o senza soldati. L’amministrazione Obama
gioca al ricatto perché sa che l’“alleato” afghano è
ricattabile: povero, fragile, ha assoluto bisogno degli aiuti della
comunità internazionale. In ambito militare, per mantenere le forze
di sicurezza afghane servono almeno 4,1 i miliardi di dollari l'anno
da qui al 2024. Così recita la dichiarazione finale della conferenza
della Nato tenuta a Chicago il 21-22 maggio 2012. Se gli Stati Uniti
e la Nato si tirano fuori, il governo afghano si ritrova con circa
350mila tra soldati e poliziotti senza stipendio. In ambito civile,
secondo le stime della Banca mondiale il paese avrebbe bisogno di
almeno 3.9 miliardi di dollari all’anno per “crescere”. Alla
conferenza di Tokyo del luglio 2012, circa 70 paesi donatori si sono
presi l’impegno di donare al governo afghano – in cambio di
alcune riforme – 16 miliardi di dollari complessivi, fino al 2017,
con gli Stati Uniti in prima linea.
Le
parole di Susan Rice trasformano però gli impegni assunti in
semplici promesse. Gli afghani vorrebbero poter avere la forza
necessaria per non cedere ai ricatti, cercando altri alleati di peso
nella regione. Ma l’India da sola non può tutto, e un suo
eccessivo protagonismo alimenterebbe il conflitto con il Pakistan. La
Cina si limita a controllare un paio di grandi investimenti nel
Paese, marginali nella sua bilancia degli affari esteri. La Russia
sembra aspettare che passi il cadavere della Nato, prima di
riaffacciarsi in Afghanistan. Se i Paesi della regione latitano, gli
Stati Uniti premono. Ieri il segretario di Stato John Kerry ha
suggerito una «soluzione»: che a firmare non sia il riluttante
Karzai, ma il più remissivo ministro afghano alla Difesa, Bismillah
Khan Mohammadi. Dal ricatto al trucchetto, dicono in molti a Kabul.
1 commento:
Non ritengo che ci sia alcun ricatto. Questa è politica e poi mi sembra il minimo. E' normale che gli USA influenzino il futuro della missione dato che sono quelli che mettono più soldi e truppe. Continuare a finanziare gli afgani senza la presenza occidentale sul terreno significherebbe buttare via i soldi visto anche il tasso di corruzione. Il problema di fondo è causato da Karzai che è un uomo voluto dagli USA. .. ma questa è una storia già vista.
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