Il disastro del Rana Plaza L'immagine è tratta dal sito della Fondazione Sneha |
Il
23 aprile dell'anno scorso, nel popoloso quartiere di Savar, un
edifico di otto piani di cemento armato mostra una crepa preoccupante
che ferisce il colosso urbano che si erge nella area periferica della
grande Dacca, la capitale del Bangladesh. Il Rana Plaza è uno di
quei mostri di cemento nati con la speculazione edilizia e che
ospitano un po' di tutto: uffici, negozi, fabbriche. Nonostante la
crepa però, che avrebbe consigliato l'evacuazione immediata o almeno
un monitoraggio attento della Protezione civile, si fa come se nulla
fosse. The
business must go on
ed è difficile dire di no all'invito – imperioso - a entrare lo
stesso: nel Rana Plaza lavorano oltre 3mila operai del tessile che
hanno bisogno di portare a casa lo stipendio. I capi reparto sono
perentori e gli operai entrano. L'invito si ripete anche il giorno
dopo quando la crepa si è allargata a tal punto da diventare
un'incisione verticale nell'enorme catafalco di cemento. Alle 8 e 45
di quel mercoledi mattina, l'edifico improvvisamente implode e si
accartoccia su se stesso come capita nei terremoti. Le foto aree
mostrano un ammasso di macerie che ha frantumato in briciole i
quattro piani più alti che schiacciano gli altri tre fino al
pianoterra. I morti superano il migliaio. Alla fine se ne conteranno
1134, oltre a duemila feriti, chi più chi meno gravemente.
L'inchiesta accerterà che i quattro piani più alti erano stati
edificati senza permesso. Un nono era in costruzione. Il progettista
del Rana Plaza, Massud Reza, dirà a giustificazione che l'edifico
era stato pensato per ospitare negozi e uffici, non certo fabbriche
con relativi magazzini. Fabbriche di vestiti, di magliette e di
Tshirt esposti con grazia nei negozi di mezzo mondo. Negozi che non
crollano.
A
due mesi da quella data, il 24 aprile 2014 primo anniversario della
strage, gli stessi attivisti che allora non fecero passare sotto
silenzio quel disastro e che, soprattutto, puntarono l'indice sulle
Tshirt macchiate, seppur indirettamente, di sangue bangladeshi,
tornano a girare il coltello nella piaga. La piaga è quella dei
marchi internazionali che, col beneplacito degli industriali locali e
con gli occhi semichiusi del governo, avrebbero girato la testa
dall'altra parte se qualcuno non li avesse chiamati in causa. A
Dacca, lavoratori
e lavoratrici tessili, sindacalisti e attivisti hanno creato lunedi
scorso una lunga catena umana e chiesto in una conferenza stampa
interventi rapidi in risposta alle richieste di risarcimento. «I
lavoratori e le lavoratrici del Rana Plaza – dice Hameeda Hossein
del Bangladesh Worker's Safety Forum - hanno atteso pazientemente
per dieci mesi che le loro richieste di risarcimento venissero
soddisfatte. I commissari inizieranno presto ad esaminare ogni
richiesta in modo che i fondi possano essere erogati. È ora che i
marchi internazionali contribuiscano al Fondo Rana Plaza affinché
quelle persone non soffrano ancora».
La sua e quella delle vittime rischiano di essere voci in un silenzio
assordante.
Questa
settimana segna però l'inizio di una nuova campagna che mira a
sfondare quel muro di silenzio. E' stata lanciata dalla Clean ClothesCampaign (“Abiti puliti” in Italia) e dai lavoratori e
lavoratrici del Bangladesh, sindacati locali e internazionali. “Pay
up!” chiede infatti ai marchi della moda che si riforniscono nel
Paese asiatico di effettuare immediatamente i versamenti nel Rana
Plaza Donors Trust Fund. Il Fondo è stato istituito ormai da mesi
ma il piatto piange anche se dovrebbe servire, sulla base di
contributi volontari, a risarcire le vittime, come stabilito dal Rana
Plaza Arrangement, un accordo supervisionato dall’International
Labour Organization (Ilo) e siglato però solo da alcuni marchi
internazionali (Bonmarché,
El Corte Ingles, Loblaw, Primark).
In due parole la Campagna Abiti Puliti chiede ai principali marchi
internazionali - Benetton, KiK e Children’s Place - oltreché alle
altre aziende italiane come Manifattura Corona e Yes Zee (che avevano
tutti ordini presso una delle cinque fabbriche presenti al Rana Plaza
al momento del crollo) di dare il buon esempio con significativi
versamenti. Lo faranno (i marchi coinvolti in totale sono 27)?
Servono
40 milioni di dollari per garantire il risarcimento per tutti i
feriti e le famiglie delle vittime per la perdita del reddito e per
le spese mediche. Il fondo è aperto a tutte le imprese ma anche a
singoli donatori che vogliano esprimere solidarietà e sostegno alle
vittime. A oggi però solo El
Corte Ingles, Mascot, Mango, Inditex e Loblaw si sono pubblicamente
impegnate a contribuire al Fondo. Ci sono due mesi di tempo adesso
per evitare che si arrivi al 24 aprile 2014 con un'ennesima lista di
buoni e cattivi, distinguo di vario tipo, reticenze e forse la
speranza che la memoria col tempo si cancelli. La memoria, difficile
da cancellare, del più grande disastro nell'industria del tessile
mai avvenuto.
La manifestazione a Dacca lunedi scorso |
A
fare un passo indietro le domande sono tante. La prima riguarda il
reticolo di malaffare e compiacenze che in Bangladesh regola la vita
economica di un Paese che, grazie al tessile, ha conosciuto un vero
boom che fa di questa industria la prima attività del Paese: con un
fatturato di 20 miliardi di dollari l'anno, conta per l'80%
dell'export e occupa (escluso il lavoro minorile) circa 4 milioni di
persone (in maggioranza donne) in 5mila fabbriche o fabbrichette. Il
Bangladesh è secondo solo alla Cina ma il suo boom ha un prezzo. Il
prezzo è il salario minimo che fino, al novembre scorso variava tra
i 25 e i 30 dollari al mese. Intere giornate di scioperi e proteste
hanno portato a un accordo in novembre per raddoppiarlo anche se poi
non tutte le aziende, alcune delle quali impiegano bambini e bambine,
di fatto lo paga. Il prezzo è anche l'ambiente di lavoro, come
insegna il Rana Plaza. Fino a quella tragedia, il
Bangladesh Fire and Building Safety Agreement (un accordo che
prevede controlli stringenti sulla sicurezza nel settore) era un
pezzo di carta perlopiù ignorato (dopo la strage, per esempio,
Benetton lo ha firmato). Quanto al Rana Plaza, il suo proprietario,
Sohel Rana, si diceva fosse un membro di punta della Jumbo League,
l'ala giovanile della Lega Awami, partito nazionalista conservatore
per anni al potere. Che
il miracolo possa finire lo temono comunque tutti, motivo per il
quale quando si è potuto insabbiare si è insabbiato. Lo temono i
governi di Dacca o la potente lobby degli industriali della
Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (Bgmea),
forte di 4mila soci che deve aver ben stampato nella memoria un
rapporto della McKinsey secondo cui l'industria del tessile del loro
Paese è destinata a triplicarsi nel 2020. Sempre secondo McKinsey,
l'80% dei produttori europei e americani starebbe pensando di
traslocare dalla Cina al Bangladesh (il rapporto però è del 2011).
In
questo settore le cose possono infatti cambiare velocemente. Anche il
Rana Plaza, le polemiche e le lotte salariali (senza contare altri
grandi incidenti come l'incendio della Tazreen Fashion nel 2012 con
oltre cento vittime) hanno fatto pensare agli investitori esteri che
è bene dare un'occhiata anche ad altri mercati. Uno di questi è
l'Indonesia, che associa alla produzione di buon cotone (kapok o
cotone giavanese) l'alta specializzazione dei suoi lavoratori.
Inoltre è diventato un Paese stabile (non lo è il Bangladesh).
Bassi salari (il caso africano per esempio) possono infatti non
essere sempre associati a una buona fattura del prodotto. Come che
sia il Bangladesh resta ancora una delle mete preferite per chi vuol
fare affari col tessile e c'è da sperare che lo rimanga. Purché i
contratti siano alla luce del sole e la luce delle nostre vetrine
smetta invece di riflettere mostri e fantasmi come quello del Rana
Plaza.
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