Visualizzazioni ultimo mese

Cerca nel blog

Translate

giovedì 6 febbraio 2014

KARZAI SOTTO TIRO E LA SINDROME DI GANDAMAK

In tempi di negoziati di pace o meglio di tentativi, in Pakistan e in Afghanistan, su Karzai si scatena l'ennesima bufera che, a tempi alterni, lo caccia dalla povere all'altare e viceversa. Il New York Times di qualche giorno fa, ha scritto che il presidente ha un canale segreto di dialogo coi talebani. In un certo senso è una notizia vecchia (si dice da sempre), dall'altra parte è una notizia, basata su pure illazioni, che in questo momento aiuta soprattutto a diminuire la fiducia nei confronti del presidente afgano, considerato ormai non più un alleato affidabile. La notizia è comunque stata smentita drasticamente dai talebani. Notizia circolatata in un momento delicato e poco prima che Obama riunisse il consiglio col quale prende le decisioni più gravi. Ormai tutti sanno che Karzai non firmerà il Patto di sicurezza bilaterale (Bsa) e che si dovrà aspettare il dopo elezioni nel quale, come hanno chiarito nel primo dibattito televisivo pubblico cinque degli 11 candidati presidenziali (compresi quelli sostenuti da Karzai), il Bsa verrà firmato senza se e senza ma.

La posizione di Karzai ha una sua logica benché si tratti di una logica molto individuale: non lasciare di sé una cattiva immagine dopo tre mandati presidenziali. Abbiamo già accennato alla sindrome Shah Shuja, cui va ad aggiungersi anche la sindrome Gandamak, elemento che abbiamo sentito citare dallo stesso Karzai. Gandamak, oltre a essere un noto ristorante-locale di Kabul, frequentato da diplomatici, giornalisti, contractor e spioni, è un villaggio - o meglio un'area - nota per le molte battaglie tra afgani e inglesi e il punto di non ritorno, in un certo senso, della Prima guerra anglo afgana. Ma è soprattutto il luogo in cui fu firmato il Patto di Gandamak (Gandamak Treaty) nel 1879 tra Yaqub Khan e Lord Cavagnari, di origini italiane (nell'immagine durante il patto).


Ratificato dal viceré dell'India  Lord Bulwer-Lytton il 30 maggio dello stesso anno, il trattato, firmato 28 giorni prima (il 2), concludeva la seconda (vittoriosa per il Regno Unito ma a duro prezzo) guerra anglo afgana (1878-1880). Stabiliva "eterna pace e amicizia" tra il regno afgano e l'Impero britannico, ma soprattutto che, d'ora in avanti, la politica estera degli afgani avrebbe seguito i dettami di quella britannica (ossessionata dal "Grande Gioco", ossia la possibile invasione russa del Paese confinante con l'estremità orientale del Raj).  Si concludeva cioè con una vendita di sovranità (che venne confermata da Abdur Rahman dopo che Ayub aveva in sostanza rinnegato gli impegni scatenando la seconda fase della guerra che si concluderà con la sua deposizione) che venne riconquistata solo con la terza guerra anglo-afgana e il Trattato di Rawalpindi  dl 1919, siglato dagli emissari dei britannici e da quelli del re riformista Amanaullah.

Ciò spiega anche perché Amanullah è tanto amato in Afghanistan e smentisce inoltre il luogo comune che gli indomiti afgani non possano essere sconfitti da potenze esterne, anche se allora, a differenza di adesso, la corona britannica non aveva basi militari da salvaguardare in Afghanistan e anzi si guardò bene dal volerne una e dal lasciarci anche solo un piccolo contingente militare. In questo senso il mito funzionava e, come si usa dire, l'Afghanistan è un Paese dov'è facile entrare ma complicato uscire.

Nell'immagine sopra: olio di Richard Caton Woodville

Nessun commento: