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venerdì 8 agosto 2014

Phonm Penh, quel verdetto pieno di vuoti

I due khmer rossi accusati di cirmini contro l'umanità:
 a sinistra Nuon Chea, l'ideologo, a destra  l'ex presidente
Khieu Samphan
Il “fratello numero 1” - di nome Pol Pot – è morto diversi anni fa. Il “fratello numero 3” - a nome Ieng Sary – è deceduto in prigione a 87 anni. Kain Guek Eav, il compagno Duch, il macellaio della prigione di Tuol Sleng è già in carcere dove sconta l'ergastolo. Mancavano solo il “fratello numero 2” - al secolo Nuon Chea, braccio destro di Pol Pot - e Khieu Samphan, il volto ufficiale del regime, presidente della Kampuchea democratica, il regime dei khmer rossi che prese il potere in Cambogia nel 1975 e la governò col terrore per quattro anni, fino all'invasione dei vietnamiti che ne decretarono la fine sostituendolo con un governo fantoccio, amico di Hanoi e Mosca e che, in un certo senso, ancora dura. Ieri la Corte speciale cambogiana, meglio nota come Tribunale per i khmer rossi, ha comminato l'ergastolo agli ultimi due uomini del regime in attesa di verdetto, accusati di crimini contro l'umanità e, nelle parole del giudice Nil Nonn, colpevoli di «sterminio, persecuzioni politiche e altri atti inumani come il trasferimento forzato, la scomparsa di persone e attentati contro la dignità umana».
Verdetto inevitabile quanto atteso e che chiude un lungo capitolo. Di pena (per le vittime del regime) e di polemiche su un tribunale nato con fatica, con l'appoggio delle Nazioni Unite e la reticenza degli Stati – asiatici e occidentali – che temevano in qualche modo di essere chiamati a render conto dell'appoggio, diretto o indiretto, di cui Pol Pot e i suoi godettero soprattutto dopo la fine del regime, nei santuari al confine con la Thailandia. Degli altri si è detto: Pol Pot è morto prima del processo, Duch è in prigione dove sconta l'ergastolo (nel 2012 la sua pena, clamorosamente ridotta a pochi anni di galera, è stata poi rivista e rafforzata), Ieng Sary è morto prima del verdetto: resterebbe sua moglie Thirith, considerata però ingiudicabile perché malata di mente. Sua sorella era stata la prima moglie del “fratello numero 1”.

Anche i khmer rossi fecero la loro"lunga marcia"
A Phnom Penh la cronaca registra evidente soddisfazione anche se il giudizio è tardivo e pieno di lacune e tutti gli accusati sono ormai dei vecchi ottuagenari cui resta poco da vivere. Tant'è, giustizia sembra fatta anche se quarant'anni dopo. Adesso sarà la Storia a scrivere l'ultima parola. I buchi in effetti sono tanti a cominciare dai numeri della strage di massa che il regime concepì sia sul piano della defenestrazione psichica e fisica di chi si opponeva o di chi semplicemente resisteva al progetto dell'“uomo nuovo” ideato da Pol Pot, sia sul piano del maltrattamento cui la popolazione contadina – enormemente cresciuta per l'esodo forzato dai centri urbani – era sottoposta. La gente, se non moriva negli interrogatori di Tuol Sleng (di cui ha lasciato una vivida ricostruzione il regista scrittore Rithy Panh, pubblicato in Italia da ObarraO), crepava di fame nelle campagne, uccisa dal lavoro forzato e dalle ricorrenti carestie. C'è ancora da scrivere con esattezza la pagina di quello sterminio le cui cifre sono ballerine: un milione, un milione e mezzo, due milioni di morti. I critici dissero che in quella sommatoria della morte c'erano anche le vittime dei bombardieri americani che con la loro “guerra segreta” avevano cercato di colpire la Cambogia del principe rosso Sihanuk, che concedeva ai vietcong di transitare sul suo regno durante la guerra del Vietnam. Poi ci sono le responsabilità di chi non vide, non volle vedere, non indagò: una colpa che si estende a destra e a sinistra, nei giornali e fra gli intellettuali con poche eccezioni (Tiziano Terzani). E infine, se non prima di tutto, le responsabilità politiche verso un Paese che subì le stesse sorti dell'Afghanistan: la geopolitica dettò alleanze e convenienze e, quando i khmer rossi dovettero scappare in montagna i cinesi dettero loro una mano e altrettanto fecero i servizi segreti occidentali, perché il nuovo regime di Hun Sen, un ex khmer rosso con armi e sostegno
di Hanoi, era appoggiato da Mosca e il Vietnam, dopo la vittoria contro l'America, era diventato troppo aggressivo e pericoloso.

Agli storici dunque colmare i vuoti che il tribunale non ha potuto o voluto riempire. Hun Sen non lo avrebbe permesso. Gli agenti cinesi, americani o britannici si sarebbero rifiutati di deporre. I tailandesi non sarebbero certo venuti a spiegare come mai il traffico di legname e pietre preziose, che i khmer rossi raccoglievano nei territori a ridosso della frontiera, filava liscio e senza intoppi sino a Bangkok. Le vittime però – chi è ancora vivo – tirano un sospiro di sollievo. Tardi e con molti buchi neri ma almeno una parola è detta. Ora si può ricominciare in un Paese dove c'è sempre altro a cui dover pensare; a come sfangarla nel regno di Cambogia (sul trono c'è un figlio di Sihanuk) dove a regnare davvero è, ironia della sorte, un ex khmer rosso dal pugno di ferro.


2 commenti:

stisella@live.com ha detto...

In febbraio ho avuto modo di visitare il museo di Tuol Sleng e di essere sfiorato dai fantasmi di morte e orrore che contiene. Ho avuto l'impressione che i cambogiani ci tengano molto a far conoscere il loro passato, inserendo le loro personali testimonianze nei percorsi turistici degli stranieri, e credo che questa sentenza fosse molto attesa. Spero che lo sviluppo della nazione cambogiana trovi un percorso di indipendenza e di salvaguardia della loro cultura dal manifesto assalto della globalizzazione e dello sfruttamento occidentale.

stisella@live.com ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.