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domenica 21 febbraio 2016

Libia/Italia: un intervento da evitare

Dopo il recentissimo raid americano nel Nord della Libia lo spettro della guerra si avvicina. Ma quali sono gli obiettivi di una missione spacciata per lotta a Daesh e quali i pericoli di un intervento militare? Sono le domande che si è fatto un gruppo di lavoro di ricercatori e analisti che hanno presentato ieri al Centro Balducci di Zugliano (Udine) un dossier al convegno ““Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dalla Tavola della pace.

L'Italia – dice in sintesi il documento - corre un grosso rischio in caso di intervento in Libia: il quadro politico locale resta confuso, la catena di comando è incerta, le incognite e le variabili sono numerose, la possibilità di perdita di vite umane sul terreno e tra la forza militare internazionale è molto elevata, le alleanze infine fanno riferimento a obiettivi e agende differenti. Il dossier analizza il quadro attuale e - al di là di considerazioni etiche o ideologiche – cerca di capire in che contesto si muoverebbe un eventuale intervento militare, agitato da mesi come spettro ed elemento di pressione e da molti ritenuto imminente anche attraverso azioni mirate unilaterali (di cui abbiamo appena avuto un assaggio ndr) in un contesto dove non è ancora chiaro né chi avrebbe in mano le redini della catena di comando né quale sarebbe il ruolo dell'Italia.



Il documento comincia dallo scenario politico generale nel quale si mescola il desiderio di stabilizzare il Paese con la necessità di mettere in sicurezza le aree petrolifere e di controllare il flusso dei migranti cui non è estraneo un movimento criminale di commercianti di vite umane. Uno scenario nel quale il nuovo esecutivo di al Sarraj per ora sulla carta (che potrebbe richiedere un intervento esterno) è molto debole e isolato e non accettato completamente nemmeno dai due governi di Tobruk e Tripoli. Le cose si complicano per la presenza di Daesh, per la fluttuazione delle alleanze interne al Paese e per la possibile capacità di attrazione, in caso di conflitto, del brand jihadista. Il documento infine mette in guardia sul problema del consenso dell'opinione pubblica libica in caso di intervento esterno e sulle dinamiche politico-militari che questo scatenerebbe. Al secondo punto si analizza l'impegno militare in caso di conflitto con una stima di impiego di uomini per l'Italia di circa 6mila uomini. Il documento sottolinea che al momento non sono chiari gli obiettivi, la struttura della catena di comando, l'effettivo coordinamento delle possibili forze in campo e mette in guardia sul possibile sfaldamento di entrambi i fronti (Tripoli e Tobruk) con conseguente polarizzazione su posizioni non conciliabili di fazioni e gruppi sempre meno uniti (oltre alla già citata variabile Desh). Il terzo punto riguarda invece le alleanze internazionali: fluttuanti, con obiettivi diversi e con un diverso rapporto con il Paese. In questo quadro confuso, il documento ricorda che gran parte di questi Paesi fanno anche parte della filiera del commercio delle armi che si rischia così di alimentare.


Il documento è stato accompagnato da una lunga intervista video ad Angelo Del Boca, registrata a Tornino martedi scorso (e pubblicata ieri sul sito de il manifesto) nella quale lo storico dell'Italia coloniale, già contrario al conflitto che ha spodestato Gheddafi, si dice certo di un fallimento se l'Italia partecipasse a un'iniziativa armata. Per Del Boca, così come per il documento, non ci sono le condizioni, politiche e militari, per un intervento dagli obiettivi confusi e che, dice Del Boca, richiederebbe l'impegno di «almeno 300mila soldati». Al convegno hanno partecipato diversi conoscitori del problema guerra: Kizito Sesana, Fabio Mini; Eric Salerno, Roberto Savio, Raffaele Crocco, Francesco Cavalli e don Pierluigi Di Piazza, Fondatore del Centro Balducci di Zugliano.

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