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domenica 21 ottobre 2018

Italia/Afghanistan. Storia di un disinteresse



Questo articolo è 
un  contributo
 al un dossier sulle elezioni afgane
 uscito il 18 ottobre su ispionline




Per capire l’orientamento dell’Italia nella vicenda afgana è necessario prendere in considerazione diversi aspetti: dalla permanenza del nostro contingente militare – fino a qualche settimana fa numericamente il secondo dopo quello statunitense – alla politica migratoria o di cooperazione civile. Il ministero degli Esteri ha un ufficio dedicato al Paese asiatico – col quale Roma si era impegnata inizialmente soprattutto a sostenere il “pilastro” giustizia e a contribuire significativamente alla missione Nato-Isaf (fino a 4mila soldati); attualmente però l’ufficio è senza la direzione di un “inviato speciale” (figura creata alcuni anni fa su ispirazione americana e adottata anche da altri Paesi europei) dal momento che l’ultimo in carica –Alberto Pieri – è stato nominato ambasciatore a Nairobi ai primi di settembre. Quanto alla politica di migrazione, l’Italia segue le direttive impresse nel 2016 dalla Ue con un accordo con Kabul per favorire il rientro degli afgani. Una decisione che sollevò polemiche per il carattere coattivo della misura – cui ha fatto seguito nel gennaio di quest’anno, ufficialmente per motivi di sicurezza, la chiusura degli uffici consolari di tutti i Paesi Ue, che ora rilasciano visti per l’Europa solo eccezionalmente. Va comunque notato che l’Italia è tra i pochi Paesi europei a non effettuare rimpatri forzati, pur avendo aderito, come membro dell’Ue, all’accordo tra Bruxelles e Kabul. Quanto all’aspetto militare e di strategia politica, ci si può invece affidare solo a dichiarazioni di intenti, soprattutto pre elettorali, da parte di chi regge l’attuale esecutivo. Dunque lo scenario si presenta abbastanza nebuloso e incerto, pur comprensibilmente visto che, dall’insediamento del governo, son passati solo pochi mesi e alcune scelte o indirizzi si presentano particolarmente spinosi specie se riguardano le sensibilità del nostro maggior alleato: gli Stati Uniti.

Ritirarsi o restare?

La missione militare che costa al contribuente italiano grosso modo 500mila euro al giorno, impegna circa 1000 soldati (tra il teatro afgano e la logistica nel Golfo) e ha tecnicamente il mandato di contribuire solo all’addestramento dell’apparato di sicurezza afgano. Per il quale effettivamente mille uomini sembrano un numero sovradimensionato. Chi si aspettava svolte clamorose, sul piano del ritiro o sulla riconversione della spesa militare in un maggior contributo alla cooperazione civile, è rimasto per ora deluso e non c’è segno che le cose possano cambiare a breve sebbene in passato partiti e movimenti ora al governo (M5S e Lega) abbiano fatto del ritiro dei nostri soldati un cavallo di battaglia.

"Sull'intervento in Afghanistan siamo sempre stati chiari. Per noi quello è un intervento che per la spesa pubblica italiana è insostenibile". Così a novembre del 2017 Luigi Di Maio, in visita a Washington in veste di vicepresidente della Camera e candidato premier in pectore del Movimento 5 Stelle: “È già nel nostro programma ed era già nelle nostre proposte. Ma non siamo pregiudizialmente contro missioni di pace all'estero, specialmente quelle a guida italiana… Non c'è pregiudizio ideologico". Posizione reiterata in campagna elettorale a febbraio 2018: «Pensiamo che il contingente italiano non debba più restare in Afghanistan. Questa missione espone i nostri soldati a rischi inutili».

Il 29 giugno 2018 la ministra Trenta, intervistata dalla rivisita americana Defense News, parla di un “cambio di passo” con una possibile riduzione dei militari da 900 a 700 unità (già stabilita però dal precedente governo). Ma aggiunge: "Non vogliamo ridurre la stabilità o ridurre il sostegno per gli afgani… non vogliamo indebolire la missione, quindi cercheremo altri partner per assumere compiti come la logistica." Il ritiro in realtà, si è saputo a inizio ottobre, sarà soltanto di 100 soldati dall’Afghanistan entro la fine di ottobre e di 50 dall’Irak.

La Lega, per anni favorevole al ritiro delle truppe non solo dall’Afghanistan, è invece diventata più silenziosa sulla questione. La parola ritiro non figura più nei messaggi del ministro Salvini e ricorre semmai nelle esternazioni di qualche parlamentare. Non di meno il contratto di governo, siglato dai due partiti per formare l’esecutivo, recita al paragrafo 9: «È opportuno rivalutare la nostra presenza nelle missioni internazionali sotto il profilo del loro effettivo rilievo per l’interesse nazionale».

500mila euro al giorno. Tanto costa
 la missione militare
La patata bollente è dunque nelle stanze del ministro Enzo Moavero Milanesi che regge il dicastero degli Esteri. Moavero ha avocato a sé tutte le competenza che riguardano aree di conflitto e di conseguenza l’Afghanistan, che avrebbe dovuto essere attribuito al sottosegretario M5S Manlio Di Stefano con delega all’area asiatica (tra i più favorevoli al ritiro, reiterato il giorno del suo insediamento). Il dossier resta dunque nelle mani di un ministro estremamente cauto e parco di esternazioni. Il mese più intenso è lo scorso giugno ma le poche parole usate da Moavero sulla vicenda afgana riguardano soprattutto il nostro rapporto con la Nato cui il capo della diplomazia italiana ha dedicato più spazio che non ad altri argomenti su cui si è espresso stringatamente (per la visita di Abdullah a Roma o la tregua tra Kabul e la guerriglia di Eid el-fitr). Sempre in giugno, nel “più che cordiale colloquio” col Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, Moavero cita l’Afghanistan solo per ricordare come “l’Italia, quinto contributore al bilancio, abbia profuso un grande impegno in termini di uomini, mezzi e risorse nelle operazioni NATO, quali Afghanistan e Kossovo”. Fonti diplomatiche sostengono che il ministro abbia ricevuto forti pressioni, sia da Stoltemberg sia dagli americani, per non toccare il nostro contingente. Che alla Farnesina regnino le parola d’ordine “continuità” e “rassicurazione” non è un mistero. E solo i prossimi mesi potranno dire se il “cambio di passo” non resterà solo nelle intenzioni.

Cooperazione civile

Se il costo della partecipazione alle missioni militari in Afghanistan a partire dal novembre 2001 (Enduring Freedom fino al 2006, ISAF fino 2014, Resolute Support dal 2015) è stato finora di quasi 8 miliardi (185.343.173 milioni nel 2018 con copertura sino al 30 settembre dell’anno in corso), gli investimenti in cooperazione civile sono stati in totale di soli 280 milioni in diversi settori, dalla sanità alle infrastrutture, con una sostanziale riduzione (20 mln l’anno) a partire dal 2013. A questi vanno aggiunti i fondi veicolati dalle Ong, attualmente scoraggiate dall’intervenire nel Paese – per motivi di sicurezza – e non più finanziate dal ministero degli Esteri (che gestisce il flusso di cassa in bilaterale o con versamenti agli organismi internazionali) e che si sono pertanto ridotte di numero dovendo dipendere dai soli fondi privati o europei. Il futuro potrebbe essere quello di una continuità equivalente a quella militare ma al vertice della neonata Agenzia di cooperazione (Aics) – cui era a capo la dimissionaria Laura Frigenti - manca però ancora un direttore e voci insistenti alla Farnesina dicono che il ministero vorrebbe riprendere il controllo della creatura nata due anni fa e non dimostratasi particolarmente efficiente. Il candidato numero uno è infatti un diplomatico. Ma si devono fare i conti con la neo viceministra con delega alla cooperazione, Emanuela del Re, neoeletta deputata del M5S e nominata a fine luglio. Gode della stima degli ambienti non governativi e della fiducia del governo. Finora però nemmeno lei ha chiarito cosa intende fare in Afghanistan.


domenica 21 febbraio 2016

Libia/Italia: un intervento da evitare

Dopo il recentissimo raid americano nel Nord della Libia lo spettro della guerra si avvicina. Ma quali sono gli obiettivi di una missione spacciata per lotta a Daesh e quali i pericoli di un intervento militare? Sono le domande che si è fatto un gruppo di lavoro di ricercatori e analisti che hanno presentato ieri al Centro Balducci di Zugliano (Udine) un dossier al convegno ““Conoscere e spiegare le guerre dei nostri giorni” organizzato dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dalla Tavola della pace.

L'Italia – dice in sintesi il documento - corre un grosso rischio in caso di intervento in Libia: il quadro politico locale resta confuso, la catena di comando è incerta, le incognite e le variabili sono numerose, la possibilità di perdita di vite umane sul terreno e tra la forza militare internazionale è molto elevata, le alleanze infine fanno riferimento a obiettivi e agende differenti. Il dossier analizza il quadro attuale e - al di là di considerazioni etiche o ideologiche – cerca di capire in che contesto si muoverebbe un eventuale intervento militare, agitato da mesi come spettro ed elemento di pressione e da molti ritenuto imminente anche attraverso azioni mirate unilaterali (di cui abbiamo appena avuto un assaggio ndr) in un contesto dove non è ancora chiaro né chi avrebbe in mano le redini della catena di comando né quale sarebbe il ruolo dell'Italia.

sabato 26 settembre 2009

COSA DICE IL RAPPORTO McCHRYSTAL


On 26 June, 2009, the United States Secretary of Defense directed Commander, United States Central Command (CDRUSCENTCOM), to provide a multidisciplinary assessment of the situation in Afghanistan. On 02 July, 2009, Commander, NATO International Security Assistance Force (COMISAF) / U.S. Forces-Afghanistan (USFOR-A), received direction from CDRUSCENTCOM to complete the overall review....

La versione declassificata del documento McChrystal del 30 agosto diffusa in sede Nato (il documento originale è di 66 pagine) il 21 settembre scorso si può leggere su Lettera22

giovedì 3 settembre 2009

PAPAVER SOMNIFERUM

La produzione di oppio in Afghanistan decresce: presto per parlare di un cambiamento significativo. Ma intanto si registra quello di Unodc, l'agenzia Onu che ha diffuso ieri il suo dossier sulle droghe nel paese in guerra. Riconoscendo errori e proponendo un principio: il problema non è sradicare l'oppio ma la povertà


La produzione di oppio in Afghanistan cala. E' questa la notizia contenuta nel dossier annuale sull'Afghanistan dell'organizzazione dell'Onu per la lotta contro la droga e il crimine, diretta dall'italiano Antonio Maria Costa. Ma in realtà la notizia vera è un'altra. L'Unodc, sino a ieri un produttore contabile di numeri, inizia a pensare in termini strategici. A porsi qualche domanda e a proporre soluzioni, addirittura criticando i Prt, le istituzioni militari con le quali gli eserciti pretendono di creare condizioni di sviluppo.
Qualcosa è successo. Forse il vento di Obama scuote anche Vienna. Così che, per la prima volta, il dossier dell'Onu diventa qualcosa di più che un manuale per ragionieri e bibliotecari degli indici di produzione dell'oppio. E' c'è anche una scoperta, pur se un po' tardiva: il mercato dell'oppio afgano si va “colombianizzando” e nascono i primi narco-cartelli, in cui la commistione tra crimine, denaro e ideologia si fonde in una miscela dove – inutile dirlo – esce vittorioso il denaro. Ma andiamo con ordine. Cominciando, come si deve, dai numeri.

Nel 2009 la coltivazione del papavero è diminuita di circa 34mila ettari, ossia del del 22%: da 157mila l'anno precedente ai 123 attuali. E nella sola provincia di Helmand, l'area di grande produzione dove la guerra aiuta il mercato illegale, il decremento è stato di un terzo portando la zona coltivata a meno di 70mila ettari (il che fa comunque quasi la metà dell'intera produzione-paese). C'è molto da fare ma l'offensiva antinarcos, dice il rapporto, sta in parte funzionando, aiutata dalle condizione del mercato (che favoriscono la semina di altre derrate) e dagli incentivi per sostituire le coltivazioni, un elemento che però, ammette Unodc, resta marginale. Anche le province poppy-free, ossia esenti da coltivazioni illegali, sono aumentate (passando da 18 a 20), in quattro l'oppio resta marginale (Kabul 132 ha, Kunar 164, Laghman 135, Nangarhar 294) e in altre tre (Badakhshan, Herat, Nimroz) lo status di poppy-free dovrebbe essere raggiunto nel 2010. Infine la produzione potrebbe considerarsi ulteriormente diminuita poiché è aumentata la resa per ettaro, in alcune zone arrivata a 56 kg (49 era stato il massimo l'anno scorso) il che fa, tra l'altro, oltre cinque volte tanto quanto si produce nel “Triangolo d'oro” birmano (10kg/ettaro). La produzione totale è dunque stata di 6.900 tonnellate (10% in meno rispetto all'anno prima nonostante un calo produttivo del 22%). Infine, 800mila contadini avrebbero lasciato la coltivazione dell'oppio.
Un'ultima scorsa ai numeri la meritano i prezzi: da 70 dollari al chilo, l'oppio fresco, cioè dal produttore, è sceso a 48 mentre la varietà stagionata è passata da 95 a 64. Prezzi bassissimi anche per un eccesso di produzione che vede i magazzini criminali strapieni: se la domanda annuale di oppiacei non supera le 5mila tonnellate l'anno, dice Unodc, ce ne sono almeno 10mila già stoccate. Interessante anche per il mercato locale, in espansione dice con preoccupazione Unodc (in Afghanistan ci sono 200mila tossicomani, ma sono dati vecchi).


La parte interessante del dossier riguarda il narcotraffico: la nascita di narcocartelli che riecheggiano la Colombia, dove la commistione tra ideologia e droga finisce a produrre un nuovo tipo di criminalità in cui si mescolano, su un fragile confine, le due componenti. Un'analisi che resta da approfondire ma di cui Unodc dà conto facendo anche capire quanto il labile confine possa persino danneggiare la guerriglia, che prima taglieggiava e imponeva decime ma che adesso sceglie il narcotraffico vero e proprio. Col rischio di perdere la purezza ideologica a favore del più seducente richiamo del denaro facile.
Sul da farsi è ancora nebbia ma qualche spunto arriva. Non tanto dalle operazioni di sequestro di oppio ed eroina (che incidono per una “frazione” del mercato illegale) quanto da un cambio di strategia. Unodc ammette che quella delle eradicazioni (bruciare o fumigare i campi) non funziona e aggiunge che quella da sradicare, non è tanto la pianta del papavero quanto “la povertà”. Ma le condizioni di sviluppo devono essere reali, non forme di “corruzione” dei contadini (soldi per cambiare idea) ma una combinazione di fattori. E non basata, dice Unodc dando una stoccata alle politiche militari di conquista di “cuori e menti”, con piccoli progetti attorno ai Prt che servono in realtà soprattutto per difendere i soldati stessi.
L'impunità resta uno dei fattori chiave. “Il target – scrive Costa nella sua nota introduttiva – non devono essere i contadini poveri ma i criminali ricchi”, quelli – aggiungeremo noi – che oltre alle armi detengono la terra, un problema che Unodc però non tocca e che soltanto Ashraf Ghani nel suo programma elettorale ha messo in luce, nel marasma di un paese senza catasto né archivi dove il titolo di proprietà è, quando va bene, un pezzo di carta scritto a mano o un diritto più spesso guadagnato a colpi di kalashnikov durante gli anni, ormai trenta, della guerra infinita.



Ma troppo non si può chiedere a Unodc visto che la responsabilità sui programmi di sviluppo, sul problema del diritto e della giustizia, dell'impunità o delle regole non le compete. Con coscienza la presentazione del rapporto conclude che “controllare le droghe in Afghanistan non può risolvere tutti i problemi del paese ma i problemi del paese non potranno essere risolti senza il controllo delle droghe”. Un buon inizio.

PAPAVER SOMNIFERUM

La produzione di oppio in Afghanistan decresce: presto per parlare di un cambiamento significativo. Ma intanto si registra quello di Unodc, l'agenzia Onu che ha diffuso ieri il suo dossier sulle droghe nel paese in guerra. Riconoscendo errori e proponendo un principio: il problema non è sradicare l'oppio ma la povertà


La produzione di oppio in Afghanistan cala. E' questa la notizia contenuta nel dossier annuale sull'Afghanistan dell'organizzazione dell'Onu per la lotta contro la droga e il crimine, diretta dall'italiano Antonio Maria Costa. Ma in realtà la notizia vera è un'altra. L'Unodc, sino a ieri un produttore contabile di numeri, inizia a pensare in termini strategici. A porsi qualche domanda e a proporre soluzioni, addirittura criticando i Prt, le istituzioni militari con le quali gli eserciti pretendono di creare condizioni di sviluppo.
Qualcosa è successo. Forse il vento di Obama scuote anche Vienna. Così che, per la prima volta, il dossier dell'Onu diventa qualcosa di più che un manuale per ragionieri e bibliotecari degli indici di produzione dell'oppio. E' c'è anche una scoperta, pur se un po' tardiva: il mercato dell'oppio afgano si va “colombianizzando” e nascono i primi narco-cartelli, in cui la commistione tra crimine, denaro e ideologia si fonde in una miscela dove – inutile dirlo – esce vittorioso il denaro. Ma andiamo con ordine. Cominciando, come si deve, dai numeri.

Nel 2009 la coltivazione del papavero è diminuita di circa 34mila ettari, ossia del del 22%: da 157mila l'anno precedente ai 123 attuali. E nella sola provincia di Helmand, l'area di grande produzione dove la guerra aiuta il mercato illegale, il decremento è stato di un terzo portando la zona coltivata a meno di 70mila ettari (il che fa comunque quasi la metà dell'intera produzione-paese). C'è molto da fare ma l'offensiva antinarcos, dice il rapporto, sta in parte funzionando, aiutata dalle condizione del mercato (che favoriscono la semina di altre derrate) e dagli incentivi per sostituire le coltivazioni, un elemento che però, ammette Unodc, resta marginale. Anche le province poppy-free, ossia esenti da coltivazioni illegali, sono aumentate (passando da 18 a 20), in quattro l'oppio resta marginale (Kabul 132 ha, Kunar 164, Laghman 135, Nangarhar 294) e in altre tre (Badakhshan, Herat, Nimroz) lo status di poppy-free dovrebbe essere raggiunto nel 2010. Infine la produzione potrebbe considerarsi ulteriormente diminuita poiché è aumentata la resa per ettaro, in alcune zone arrivata a 56 kg (49 era stato il massimo l'anno scorso) il che fa, tra l'altro, oltre cinque volte tanto quanto si produce nel “Triangolo d'oro” birmano (10kg/ettaro). La produzione totale è dunque stata di 6.900 tonnellate (10% in meno rispetto all'anno prima nonostante un calo produttivo del 22%). Infine, 800mila contadini avrebbero lasciato la coltivazione dell'oppio.
Un'ultima scorsa ai numeri la meritano i prezzi: da 70 dollari al chilo, l'oppio fresco, cioè dal produttore, è sceso a 48 mentre la varietà stagionata è passata da 95 a 64. Prezzi bassissimi anche per un eccesso di produzione che vede i magazzini criminali strapieni: se la domanda annuale di oppiacei non supera le 5mila tonnellate l'anno, dice Unodc, ce ne sono almeno 10mila già stoccate. Interessante anche per il mercato locale, in espansione dice con preoccupazione Unodc (in Afghanistan ci sono 200mila tossicomani, ma sono dati vecchi).


La parte interessante del dossier riguarda il narcotraffico: la nascita di narcocartelli che riecheggiano la Colombia, dove la commistione tra ideologia e droga finisce a produrre un nuovo tipo di criminalità in cui si mescolano, su un fragile confine, le due componenti. Un'analisi che resta da approfondire ma di cui Unodc dà conto facendo anche capire quanto il labile confine possa persino danneggiare la guerriglia, che prima taglieggiava e imponeva decime ma che adesso sceglie il narcotraffico vero e proprio. Col rischio di perdere la purezza ideologica a favore del più seducente richiamo del denaro facile.
Sul da farsi è ancora nebbia ma qualche spunto arriva. Non tanto dalle operazioni di sequestro di oppio ed eroina (che incidono per una “frazione” del mercato illegale) quanto da un cambio di strategia. Unodc ammette che quella delle eradicazioni (bruciare o fumigare i campi) non funziona e aggiunge che quella da sradicare, non è tanto la pianta del papavero quanto “la povertà”. Ma le condizioni di sviluppo devono essere reali, non forme di “corruzione” dei contadini (soldi per cambiare idea) ma una combinazione di fattori. E non basata, dice Unodc dando una stoccata alle politiche militari di conquista di “cuori e menti”, con piccoli progetti attorno ai Prt che servono in realtà soprattutto per difendere i soldati stessi.
L'impunità resta uno dei fattori chiave. “Il target – scrive Costa nella sua nota introduttiva – non devono essere i contadini poveri ma i criminali ricchi”, quelli – aggiungeremo noi – che oltre alle armi detengono la terra, un problema che Unodc però non tocca e che soltanto Ashraf Ghani nel suo programma elettorale ha messo in luce, nel marasma di un paese senza catasto né archivi dove il titolo di proprietà è, quando va bene, un pezzo di carta scritto a mano o un diritto più spesso guadagnato a colpi di kalashnikov durante gli anni, ormai trenta, della guerra infinita.



Ma troppo non si può chiedere a Unodc visto che la responsabilità sui programmi di sviluppo, sul problema del diritto e della giustizia, dell'impunità o delle regole non le compete. Con coscienza la presentazione del rapporto conclude che “controllare le droghe in Afghanistan non può risolvere tutti i problemi del paese ma i problemi del paese non potranno essere risolti senza il controllo delle droghe”. Un buon inizio.